Niente di ciò che può essere espresso è osceno.
Osceno è ciò che rimane nascosto.
Nagisa Ōshima
È ritrovata. / Che cosa? L’eternità. / È il mare convenuto / con il sole.
Arthur Rimbaud
Una storia individuale può creare una falsa pista capace di far deragliare, o persino riscrivere, il corso degli eventi e, per parafrasare D.F. Wallace, diventare un orzaiolo sulla palpebra della Storia. Sembra questa l’impalcatura teorica da cui prende le mosse Mademoiselle (conosciuto anche come The Handmaiden) che, sebbene abbia trovato distribuzione nelle sale italiane dopo ben tre anni dalla sua presentazione al festival di Cannes, costituisce ancora il tassello più recente nella filmografia di Park Chan-wook, ma anche quello che presenta maggiori punti di criticità. Tanto coerente all’interno del suo percorso autoriale quanto scivoloso per via della struttura teorematica volta a dimostrare più che a mostrare, Mademoiselle fagocita la Storia finendo col fagocitare se stesso.
Anni trenta: mentre imperversa una pioggia scrosciante, un nugolo di soldati giapponesi fa irruzione in un villaggio coreano con quel fragore marziale dei passi proprio di chi si ritiene padrone indiscusso. A fargli da controcampo è dapprima il canto dei bambini e, subito dopo, il pianto disperato e senza mire precise dei neonati. La subitanea e frenetica uscita di campo dei soldati segna così l’ingresso in un universo che, agli occhi degli orientali, appare fulgido e monolitico: quello del Giappone che, a sua volta, fin dai tempi della Restaurazione Meiji avviata dall’approdo in terra nipponica del commodoro Perry, è in preda a un moto di ammirazione incondizionata nei confronti dell’Occidente.
Ed è in casa di Kōzuki, alacre lettore coreano di libri inglesi e francesi deciso a diventare “totalmente giapponese”, che Okju – ragazza cresciuta senza la madre, morta per il parto, e addestrata da un’abile mezzana ai laidi segreti del furto, della contraffazione e del lenocinio – è inviata in qualità di ancella di Hideko, ricca ereditiera (e nipote della defunta moglie dell’uomo), per inscenare un teatro della seduzione, allestito dal finto conte Fujiwara, che dovrebbe condurre al suo raggiro e internamento. Tuttavia, come accade ne La casa degli amori particolari (1964) di Yasuzō Masumura – cui Park guarda anche per la composizione di alcune inquadrature – la triangolarità delle relazioni rischia di essere solo un velo che cela l’estraneità di uno dei partecipanti.
Operando un deciso slittamento rispetto a Ladra, romanzo di Sarah Waters ambientato nella Londra vittoriana cui è ispirato il film, Park riparte da certe atmosfere del precedente Stoker (2013) per rappresentare il mondo occidentale, esemplificato dall’architettura inespugnabile della mansion entro cui è confinata Hideko (il cui nome è un omaggio alla diva e musa di Mikio Naruse, Hideko Takamine). Ponendo di fronte a essa una casa tradizionale in stile giapponese, il regista adotta due differenti modalità di ripresa per inquadrare i rispettivi emisferi, poli culturali verso i quali si protende l’interesse di Kōzuki e in cui la Corea assume i tratti di una brulla terra di mezzo, indecisa se far confluire tutta la propria adorazione verso il proprio colonizzatore o verso il “colonizzatore del colonizzatore”.
Da un lato il mondo occidentale è così spesso osservato da una macchina da presa ieratica, dall’altro il caos e il dépaysement orientali, generati dall’incontro perturbante con l’Occidente, si dispiegano mediante il ricorso a panoramiche a schiaffo, zoom furenti e montaggio serrato. Anche in virtù di tali scelte formali, Mademoiselle è un film profondamente dialettico che non giunge però al momento della sintesi, se non quella, estetizzante e corriva, di alcune plongée attraverso cui si vorrebbe abbracciare verticalmente le vicende, in risposta all’asfissiante “orizzontalità” distanziante degli spazi.
Il trattamento dello spazio – quello tra le nazioni, i luoghi e i corpi – acquista una dimensione preponderante rispetto a quello del tempo. Già come intuito da Ōshima in Ecco l’impero dei sensi (1976), filmare lo spazio che separa e avvicina (tra, appunto) comporta un corpo a corpo tanto silenzioso quanto rivoluzionario con la Storia e contro l’umana tendenza a sancire l’oscenità e il “rimanere fuori” di certe pratiche. Hideko e Okju si chiudono nel loro “impero dei sensi” perché capaci di retrocedere dinnanzi a una società alienata che riduce la donna al patrimonio che può offrire a vantaggio dell’uomo. E mentre il nazionalismo militarista infiamma il continente, la macchina da presa insiste invece sulla totalità dei corpi, rifuggendo però dalla logica “genitalizzante” della pornografia e, altresì, dagli shunga, stampe erotiche che Hideko osserva fin da bambina nelle quali, alla rappresentazione naturalistica dei corpi, è associato un gigantismo priapeo e, per la controparte femminile, un esibizionismo in bilico tra le sculture Sheela-na-Gig e quelle induiste raffiguranti la dea della fertilità Lajja Gauri.
In Mademoiselle, dunque, è osceno delimitare i confini della conoscenza che si vorrebbero presidiati da un serpente minaccioso che in realtà si rivelerà un idolo di pietra da decapitare. I confini della conoscenza corrispondono ai limiti imposti da Kōzuki (e più in generale dagli uomini) all’esercizio della conoscenza da parte delle donne. Fin da bambina Hideko è costretta a trasformarsi in un’etera versata nell’arte della lettura declamata a godimento di un uditorio maschile composto da collezionisti di libri, i quali pretendono che il verbo si faccia carne e che la parola risuoni nel silenzio raccolto di un boudoir come un colpo di frusta assestato sulle proprie natiche imporporate.
Il linguaggio non è tacciabile di oscenità quando è la letteratura a conferirgli dignità, mentre gli scambi verbali rozzi che spezzano la musicalità della declamazione sono puniti perché prefigurano il passaggio dalla potenzialità all’attualità, dall’intatta fortezza virginale che gli uomini sognano di espugnare all’orifizio che si schiude per accogliere coscientemente l’altro/a facendosi corpo anatomico a tutti gli effetti e inserendo «nella violenza la calma e la misura della coscienza» (Bataille 2009, p. 183).
Se dapprima la passione che accende Hideko e Okju ha bisogno di un filtro, dell’intermediazione fantasmatica del desiderio del conte Fujiwara, portatore di “caos storico” (della Storia scritta dagli uomini), le donne scoprono attraverso “l’alleanza dei corpi” che la rivoluzione avviene tramite il sovvertimento dello status quo e la conseguente riscoperta del mondo e degli oggetti che lo compongono. Così, le perle metalliche con cui Kōzuki era solito martoriare le mani della piccola Hideko si riconfigurano come campanelli che conducono le due donne fuori da quei luoghi opprimenti, verso la vastità dell’oceano, nel momento in cui esse se ne appropriano per farne un veicolo del piacere anziché uno strumento di oppressione.
Similmente, gli slittamenti di punto di vista e di voci narranti, rimarcati dalla struttura tripartita del film, smantellano progressivamente il teatro delle illusioni, e il conte Fujiwara, suo artefice massimo, resterà vittima del proprio raggiro. Se la Storia e il linguaggio sono puntualmente imbalsamati e mistificati dagli uomini sino ad espungerne il più flebile alito di vita, l’erotismo – come la poesia, l’effrazione del linguaggio che in seno alla norma traccia una deviazione da essa – dei corpi intrecciati «conduce […] all’indistinto, alla confusione degli oggetti distinti» (ivi, p. 25).
La Storia non è allora un ectoplasma o un polpo gigante rinserrato entro un acquario troppo stretto, ma il movimento che si rifrange sui corpi individuali, i quali attraverso l’erotismo deviano e scoprono la vita, «quest’apertura a tutte le possibilità, quest’attesa che nessuna soddisfazione materiale riuscirà mai a esaudire» (ivi, p. 252). La vita nel reame dei sensi è forse l’unica possibile per la coppia ed entrambe le donne sono disposte ad andare fino in fondo, lì dove si può provare un piacere più intenso.
Riferimenti bibliografici
G. Bataille, L’erotismo, SE, Milano 2009.
Id., Madame Edwarda, SE, Milano 2004.