Un rettangolo grigio piombo si staglia su uno sfondo quadrato color avorio. Nel mezzo del rettangolo un cerchio, dentro al cerchio un ovale. È una testa, indubbiamente una testa, ma è anche una televisione, forse una televisione vecchia, a tubo catodico, o magari uno schermo LCD, con quella forma allungata. Fluttua questo impasto, si stacca da quello che è chiaramente un corpo, ma che tipo di corpo? Umano o macchinico? Che non sia per caso il ritratto del Tin Woodman, l’omino di latta del Mago di Oz, con quelle mani giganti?

Sono in piedi da un po’ di fronte a questo quadro, lo osservo lungamente, ruoto la testa, faccio scorrere gli occhi avanti e indietro, setaccio la mia memoria, ma nulla sembra giungermi in soccorso per trovare una via di fuga che mi conduca fuori da questo enigma. “My Head is Disconnected”, la mia testa è disconnessa, recita il titolo che compare a grandi lettere sulla tela; niente riuscirebbe meglio a descrivere la relazione che l’opera intrattiene con lo spettatore: il quadro si fa specchio, guardo la figura dipinta e vedo me stesso.

My Head is Disconnected è parte della retrospettiva che HOME, il centro per il teatro, il cinema, la musica e l’arte contemporanei di Manchester dedica a David Lynch, e costituisce la più importante esposizione di lavori dell’artista americano mai tenutasi nel Regno Unito. Conoscendo la sua predilezione per gli ambienti industriali (che lo portò a fare un viaggio – deludente a suo dire – proprio nel Nord dell’Inghilterra per fotografare i “templi della manifattura” sorti alla fine del ‘700), Manchester è una delle sedi più indicate per ospitare questa operazione, visitabile sino al 29 settembre, che rende giustizia a quello che è un grande desiderio di Lynch stesso, quello cioè di essere riconosciuto come artista visivo che lavora con le immagini, con tutte le immagini, indipendentemente dal loro supporto o dalla definizione, come ha ancora recentemente dichiarato in quello strano oggetto (auto)biografico che è Lo spazio dei sogni, scritto con Kristine McKenna nel 2018.

Sono più di sessanta le opere, tra quadri e manufatti, visibili al pubblico, organizzate in quattro sezioni (City on Fire, Nothing Here, Industrial Empire e Bedtime Stories) che di Lynch restituiscono l’omogeneità stilistica e l’eterogeneità tematica. Lungo il percorso espositivo si condensano tutti i principali temi che ne attraversano l’opera, sin dagli esordi alla fine degli anni ’60, tra i quali, come li riassume Greg Olson in David Lynch: Beautiful Dark, «il senso di un mondo onirico e tuttavia familiare; il paesaggio delle cittadine di provincia; le tinte vivide e staurate della sua cinematografia; i ronzii, di solito dell’elettricità e dell’industria, che impasta con le sue immagini; la fascinazione dettagliata e ravvicinata per le texture» (Olson 2008, p. 3).

Si tratta di aspetti ampiamente conosciuti, non solo dagli appassionati lynchani. Ma nonostante la mancata sorpresa, suscita comunque una certa inquietudine essere circondati da queste opere, dove si percepisce un disegno di assoluta coerenza, eppure in fondo impenetrabile. È sin troppo triviale scomodare – per l’ennesima volta – il concetto di perturbante per riferirsi al lavoro di Lynch, ma in un certo senso niente di più è possibile aggiungere che non sia già racchiuso in quella parola: la sensazione di un’alterità inquietante e non pienamente identificabile che si insinua sino al cuore della tranquilla e sicura consuetudine quotidiana. Vale per le opere, i film, i quadri, vale a maggior ragione per questa esposizione, che chiede allo spettatore di fare i conti con un eccesso ben noto, ma mai completamente addomesticabile.

Vedendo da vicino questi lavori, la prossimità con le poetiche di Franz Kafka e Francis Bacon emerge in tutta la sua evidenza. Da un lato ci sono le citazioni quasi letterali dallo scrittore cecoslovacco, come il famoso Bee Board realizzato tra 1986 e 1987: 20 mosche, disposte in forma rettangolare, sotto le quali si leggono stampati a macchina i rispettivi nomi (l’immancabile Bob ovviamente, oltre a Hank, Harry, Chuck, ecc…, mosche maschi dunque).

Ma si tratta di un riferimento che rimane anche in opere recentissime, come The Thoughts of Mr. Bee-Man e I Was a Teenage Insect, entrambe del 2018, poste quasi alla fine del percorso nella sezione “Bedtime Stories”. Quadri evidentemente legati tra loro, non solo per il tema, ma anche per il formato e per la costruzione dello spazio della rappresentazione: uno sfondo bianco, neutro, sul quale il soggetto si staglia in modo deciso, lasciando però una sorta di appendice a sé staccata, disconnessa, ancora una volta, che rimanda alla reversibilità di interno ed esterno, tanto nell’essere umano che nei luoghi che questi abita (in particolare la casa).

Dall’altro si assiste invece al processo di scarnificazione del figurativo per accedere al regime del figurale, come scriveva Gilles Deleuze nel libro dedicato al pittore inglese. Il divenire-animale è dunque il punto di contatto di questa doppia influenza, che si traduce alternativamente nella resa letterale della metafora animale oppure nella messa in evidenza delle linee di forza che deformano il soggetto della rappresentazione. Una deformazione che assume i tratti perturbanti di prossimità con esseri proteiformi, organismi semplici che sembrano esser stati catapultati direttamente dagli albori del mondo (come nel trittico baconiano Tre studi per figure alla base di una crocefissione del 1944 conservato alla Tate di Londra). Una deformazione che si attesta anche a un livello completamente diverso e non intacca più le forme dell’apparire, ma più in profondità quelle dell’essere.

Ha scritto Francesco Zucconi che è a partire dalla componente uditiva che è possibile esplorare questa particolare pista interpretativa: «È per questa via che il regista sembra cercare di trasformarsi in una “macchina acustica” capace non tanto di ascoltare e comprendere, quanto di sentire le interferenze tra i diversi livelli seriali che sfruttano l’etere e il ciberspazio». Se nei film e nelle opere questa traccia era rinvenibile nella proliferazione di strumenti di riproduzione audio (il telefono a rotella, il citofono, il grammofono, lo stesso padiglione auricolare), nelle opere esposte è invece qualcosa d’altro che cattura l’attenzione. Certo, un telefono a rotella è pure il soggetto di un quadro omonimo (Telephone del 2012, che ovviamente reca il titolo scritto sulla superficie dipinta e ribalta ironicamente il Ceci n’est pas une pipe magrittiano, forse perché oggi questo, almeno per l’esperienza comune, non è più un telefono); ma qui non si tratta di sentire quelle interferenze, quanto semmai di produrle.

Ripassando in rassegna i quadri, si nota qualcosa che attraversa le diverse sezioni e ricorre con sempre maggior insistenza con l’avanzare della carriera di Lynch. Si potrebbe descrivere come il tentativo di dare forma concreta, di restituire spessore materico al flusso di pensiero e di sensazione che viene emesso nell’atto di fonazione, quasi come un Ambrogio Lorenzetti o un Beato Angelico alla prova dell’Annunciazione. Quelle parole, così immateriali, che sono del resto il principale veicolo di comunicazione tra l’interiorità del soggetto e il mondo circostante.

E sono tanti i momenti dove queste parole prendono consistenza tangibile. Lo si può vedere nel 2009 in Red Pipe (a proposito di Magritte…) nelle forme di una pipa rossa che è già una lingua e si protende dall’ugola per disperdersi in una nebbia biancastra distinta dal fumo (rosa, e densamente composto) della pipa stessa. Ma con maggiore evidenza, e sempre nello stesso anno, questo “divenir concreto” dell’atto locutorio trova due esempi sintomatici in Oh, I Said a Bad Thing e Figure#3 – Man Talking, dove l’esternazione dell’interiorità viene restituita attraverso contorni marcati e densità pastosa, rendendo visibile il magma inespresso che alberga nella profondità umana.

Se in questi esempi la materia è ancora informe e fluttuante, sembra invece trovare un punto di arrivo nel 2017 con Philadelphia. Qui, la parola scritta (il titolo del quadro, nonché città nella quale Lynch si è formato artisticamente), diventa un fiotto biancastro che esce dalla bocca del soggetto, una figura dinoccolata che si aggira – possiamo presumere – tra le vie della città invocandone il nome. Il supporto nel quale la parola si inscrive, tuttavia, suggerisce di essere di natura completamente altra rispetto all’etereo fumetto al quale pure rimanda; è piuttosto un oggetto dotato di una solidità assoluta, dai contorni perfettamente definiti, che non lascia margine al fluttuare del senso, al suo possibile carattere nebbioso, alla sua – ormai si può ben dire – dimensione lynchana. Ma a cosa rimanda il nome di una città? Ecco che, con un ultimo guizzo, ritorniamo nel cortocircuito tra il visibile e il dicibile dal quale siamo partiti.

La perfetta coincidenza tra la parola e la cosa, anziché rafforzare lo statuto di realtà di entrambe, spalanca una faglia ricorsiva tra gli spazi al di qua e al di là della rappresentazione. Quella vertigine provata all’inizio del percorso, quel gioco di incassature che elide il confine tra interno ed esterno (tipico di tutta l’opera di Lynch), si ritrova ora nell’apparente coincidenza di termini che tuttavia non possono nascondere le continue smarginature tra livelli di realtà incommensurabili. La parola allora diviene per il Lynch artista figurativo (quella forma espressiva, cioè, che ha sempre dovuto confrontarsi con l’assenza del suono) la specifica chiave di accesso a mondi distanti e eterogenei eppure uniti da un passaggio segreto, un collegamento sotterraneo che deve essere scoperto, o dal quale non bisogna farsi scoprire. Che quel mondo sia il nostro doppio malvagio, o che sia un pianeta distante, non è dato sapersi. Ma forse, in fondo, non è poi una differenza così determinante.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 2007.
D. Lynch, Someone is in my House, a cura di S. Huijts, con saggi di M. Chabon, P. Giloy-Hirtz e K. McKenna, Prestel, Monaco-Londra-New York 2018.
D. Lynch e K. McKenna, Lo spazio dei sogni, Mondadori, Milano 2018.
G. Olson, David Lynch: Beautiful Dark, The Scarecrow Press, Toronto-Plymouth 2008.

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