La produzione dell’Opera di Roma ha certamente rappresentato il punto più avanzato e innovativo nel panorama lirico italiano dell’epoca Covid. Gli straordinari esperimenti cine-teatrali de Il barbiere di Siviglia e La traviata diretti da Mario Martone (che avranno un seguito con la Bohème di Puccini in autunno) hanno coinciso con l’addio di Daniele Gatti alla direzione artistica del teatro (chiamato a dirigere il Maggio Musicale Fiorentino), a cui è subentrato Michele Mariotti, uno dei direttori italiani più importanti della nuova generazione. Luisa Miller di Verdi, andata in scena a febbraio 2022, corrisponde all’inizio di questo nuovo capitolo nella storia del teatro romano. Già proposta in streaming in forma di concerto nel maggio del 2021, il capolavoro di Verdi del 1849 è stato portato in scena in questi giorni con la regia di Damiano Michieletto e la direzione dello stesso Mariotti.
Pur essendo la ripresa di una produzione dell’Opera di Zurigo del 2010, lo spettacolo riconsegna la cifra di un nuovo inizio post pandemico, da un lato nel segno di una continuità (l’attenzione al repertorio verdiano “minore” e alle sue moderne architetture drammaturgico-musicali che già caratterizzava il lavoro di Gatti), dall’altro di una apertura al repertorio novecentesco e alle sue discendenze tardo classiciste e primo romantiche (tra i titoli già annunciati da Mariotti per le prossime stagioni: Dialogues des Carmélites di Poulenc, Il castello del Duca Barbablù di Bartók, Il prigioniero di Dallapiccola e l’Heure espagnole di Ravel). Ed è proprio questa lettura novecentesca di Luisa Miller a colpire nella direzione di Mariotti, che non solo è tesa ad esaurire ogni enfasi romantica del testo musicale (coadiuvato da ottimi interpreti come Antonio Poli a Roberta Mantegna e Amartuvshin Enkhbat) ma approda a un lirismo e a una “clarté” capaci di esaltare gli elementi strutturali della composizione verdiana (analogamente a quanto faceva Pierre Boulez con il repertorio wagneriano negli anni ‘70).
Se la “riscoperta” del primo Verdi alla Scala da parte di Riccardo Muti negli anni ’90 passava da una sua rilettura filologica nell’ambito del melodramma italiano ottocentesco, l’attenzione di Mariotti è interamente legata alla complessità dei contrappunti della forma di Luisa Miller (come nel bilanciamento tra cantanti e orchestra nel Terzetto “Qual grida intesi?” con cui si chiude l’opera o nel Quartetto del secondo Atto) e alle sue venature liriche e belcantistiche (dall’Aria tenorile “Quando le sere, al placido” alla struggente “Tu puniscimi, o Signore” di Luisa). In questo senso, Luisa Miller rappresenta un’opera esemplare di tutto il repertorio verdiano perché per la prima volta scarta dalla struttura del dramma storico e shakespeariano per costruire un vero e proprio dramma borghese, riproponendo la tragedia Kabale und Liebe da cui è tratta in chiave interamente psicologica e intimista, svincolata cioè da ogni prospettiva sociale e lessinghiana che caratterizzava l’originale di Schiller.
La regia di Michieletto è suggestiva e centrata nella maniera in cui riconsegna il tratto tipicamente borghese dell’opera a partire dal tema del doppio. Due livelli separati da una parete immaginaria distinguono la casa nobile di Rodolfo in alto da quella borghese di Luisa Miller in basso, che idealmente segnano l’impossibilità del loro amore. Ma, come nella successiva Traviata, non è all’interno di una prospettiva sociale che si consuma l’unione impossibile dei due amanti quanto nell’orizzonte tipicamente melodrammatico dell’astrazione. Luisa Miller è per certi aspetti un’opera antiverdiana perché riconsegna un soggetto interamente astratto che sceglie di aderire a una condizione metastorica (la morte dei due amanti nel finale ne è il suggello) rifuggendo la sua identità politica in cui sono invece inquadrate le azioni dei personaggi del Verdi giovanile e di opere successive come Aida o Don Carlo. Il dispositivo amoroso che lega Rodolfo e Luisa ha un carattere profondamente scettico e simbiotico perché concepisce la realtà oggettiva (con le sue componenti sociali e collettive) solo in quanto ostacolo alla sua realizzazione. È come se esistesse già in nuce lo schopenhauerismo della «notte del mondo» di Tristano e Isotta, con la sua metafisica astratta della natura contrapposta alla razionalità delle Storia, di cui gli amanti sono vittime.
Il realismo borghese che la regia di Michieletto fissa a partire dai costumi e dalle scene (costruite su una piattaforma rotante che gli permette di alternare i vari ambienti) funziona nella maniera in cui perimetra la differenza sociale di uno scontro che è invece intimamente interiore e intellettualizzato. Quel livello di astrazione è simbolicamente recuperato dalle figure di due bambini, un maschio e una femmina, che mimano, destituendoli di nobiltà e profondità, i gesti di Rodolfo e Luisa. Si prendono a cuscinate o giocano con un palloncino da un lato all’altro della scena, ricreando in definitiva il senso ultimo di questo capolavoro antiverdiano.
Perché se la grandezza dell’arte di Verdi è stata quella di «armonizzarsi col moto della civiltà e riflettere in sé le epoche storiche», come auspicava profeticamente Giuseppe Mazzini nella Filosofia della musica del 1833, all’interno del corpus delle sue opere Luisa Miller rappresenta una delle poche, straordinarie e sorprendenti, contraddizioni.
Luisa Miller. Regia e scene: Damiano Michieletto; direzione: Michele Mariotti; musica: Giuseppe Verdi; Maestro del coro: Roberto Gabbiani; costumi: Carla Teti; scene: Paolo Fantin; luci: Alessandro Carletti; interpreti: Roberta Mantegna, Michele Pertusi, Antonio Poli, Daniela Barcellona, Marco Spotti, Amartuvshin Enkhbat; durata: 175′.
*La foto in apertura e in copertina è di Fabrizio Sansoni per Opera di Roma 2022.