«A partire dai dodici anni di età, i minorenni riconosciuti colpevoli di furto, violenze, lesioni personali, menomazioni, omicidio o tentato omicidio, sono passibili di giudizio penale, con l’applicazione di tutte le misure punitive». Così la risoluzione congiunta del Comitato esecutivo centrale dell’URSS e del Consiglio dei commissari del popolo, Sulle misure della lotta alla criminalità minorile, approvata il 7 aprile 1935, con il limite dei dodici anni aggiunto personalmente da Stalin sulla bozza preparata da Andrej Vyšinskij. A chiarire che cosa intendere con misura punitiva, una nota segreta trasmessa agli organi competenti il 20 aprile, specifica che significa anche la pena capitale, anche la fucilazione.

Con questa risoluzione di Stalin, l’URSS decide di passare dalla lotta contro la besprizornost’ alla sua liquidazione, e con essa alla rimozione dei libri che avevano provato a descriverla e a delineare delle strategie socio-pedagogiche per affrontare il fenomeno dei besprizonrnye, ossia dei bambini senza controllo, spesso orfani o abbandonati dalle proprie famiglie, vagabondi per le stazioni dell’enorme Unione Sovietica e per le vie delle sue metropoli, Mosca su tutte. Bambini che fuggivano dalle case dei genitori, dove avevano spesso visto morire i propri cari e dove non c’era più cibo, che fuggivano dagli orfanotrofi, dove si moriva di freddo e di fame, che fuggivano dalle colonie, nelle quali regnava la violenza dei compagni e l’indifferenza degli educatori. Bambini che mendicavano, rubavano, si prostituivano, si drogavano, uccidevano, torturavano (fisicamente e psicologicamente) ed erano torturati. Un mondo di vagabondi che si muoveva senza adulti, fuggendone l’aiuto e la repressione. All’inizio degli anni venti arrivarono a essere circa sette milioni, su una popolazione di meno di 150 milioni, all’interno di un sistema che avrebbe dovuto garantire un Welfare state universale, ma che attraversò in quegli anni guerra civile, carestie, collettivizzazione forzata delle campagne e pianificazione economica.

Nella lotta contro la besprizornost’ si intrecciano due problemi. Il primo riguarda le strategie legislative, psicologiche, educative, repressive che un sistema normativo ipertrofico come quello dell’Unione Sovietica mise in campo. Su questo, alle ricerche ancora ineludibili di Alan Ball (And now my soul is hardened, 1994) e di Dorena Caroli – L’enfance abandonnée et délinquante dans la Russie soviétique (1917-1937), 2004 – vanno aggiunte quelle dei ricercatori russi come Andrej Slavko che hanno potuto giovarsi del superamento della censura di stato e dell’accesso ad archivi pubblici e privati dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Il secondo nodo riguarda invece la propaganda ideologica, quello che la besprizornost’ significava per il mondo occidentale e per l’Unione Sovietica: l’orrore per gli uni, l’anarchia imminente e la speranza di una salvezza attraverso la costruzione della società nuova per gli altri. Quei bambini randagi erano la manifestazione della crudeltà della fame di quegli anni, con episodi di cannibalismo che arriveranno fino all’assedio di Leningrado e che saranno riportati dalla pubblicistica occidentale anti-sovietica, fino allo slogan de “i comunisti mangiano anche i bambini”. Come chiarì Nadežda Krupskaja, pedagogista e moglie di Lenin, al I Congresso dedicato alla lotta contro la besprizornost’, tenuto a Mosca nel marzo 1924, in gioco era l’affermazione o il fallimento della costruzione dell’uomo nuovo, annunciato dai bolscevichi.

Luciano Mecacci si era avvicinato a questo tema già durante i suoi soggiorni di studio a Mosca negli anni settanta, muovendo non tanto da quello che all’epoca era considerata la risposta decisiva per risolvere il fenomeno, ossia il progetto socio-pedagogico di Makarenko, ma dalle ricerche psicologiche di Vygotskij e Lurija, che tra il 1926 e il 1927 aveva condotto una ricerca poi discussa in Linguaggio e intelletto nel bambino di città, di campagna e besprizornyj (1930); ma lo stesso Lurija, ricorda Mecacci, era reticente su quegli studi, aggiungendo alla censura istituzionale il pudore e il dolore di ritornare con la memoria a quegli anni, che hanno costretto alla rimozione dei problemi e al silenzio su ciò che accadeva davanti agli occhi, nei vicoli, nelle stazioni, nei mercati.

Mecacci non intende in Besprizonrnye riprendere quegli studi di psicologia culturale, che furono bruscamente interrotti in Unione Sovietica nel 1936, quando la pedologia, ossia la psicologia storico-sociale della scuola di Lev Vygotskij, fu condannata dal Comitato centrale del Partito. Offre piuttosto un saggio di storia della mentalità collettiva, ricostruendo il quadro dei pensieri e del linguaggio di questi bambini abbandonati, come emerge dalle testimonianze degli stessi protagonisti, dalle relazioni degli educatori, dai racconti degli scrittori russi negli anni venti e nei primi anni trenta. Un quadro per decenni mutilato, con libri censurati perché in essi era assente una prospettiva di riscatto, perché erano troppo affascinati dal mito del vagabondaggio a oltranza, come se quei bambini replicassero i viaggi dei pellegrini folli e insieme santi, o perché chi li aveva scritti era stato giudicato “nemico del popolo”. Perché non credevano che educarli (al comunismo) e salvarli fossero la stessa cosa.

È un quadro che si potrebbe delineare attorno a due libri cancellati. Il primo è La fame come fattore (1922) di Pitirim Sorokin, collaboratore di Kerenskij, poi espulso dall’Unione Sovietica e tra i padri della sociologia statunitense. L’opera fu subito ritirata dalla tipografia della casa editrice e distrutta. In un’analisi giudicata anti-rivoluzionaria, si descriveva il conflitto tra due meccanismi biologici primari, l’istinto della fame per garantirsi la sopravvivenza e l’istinto di conservazione dei propri conspecifici, in particolare dei propri congiunti. Ma la spinta egoistica, quando non è soddisfatta, degenera e prevale sull’istinto sociale, fino al cannibalismo, come nei mesi più drammatici della carestia del 1921-22. Eppure sulla stessa Pravda, nel gennaio 1922, era apparso un articolo dal titolo eloquente, Antropofagia, che non aveva nascosto come il fenomeno stesse diventando di massa.

L’altro libro è La fabbrica degli uomini (1929) di Matvej Pogrebinskij, descrizione in forma romanzata del lavoro svolto tra il 1925 e il 1929 in qualità di direttore della comune di Bolševo, a nord di Mosca. Bolševo fu una delle prime comuni di rieducazione forzata, promosse dallo stesso Dzeržinskij, organizzatore e presidente della polizia segreta, la Čeka (in seguito OGPU). In tali comuni, i ragazzi vivendo in comunità avrebbero imparato a leggere e scrivere, appreso un mestiere, acquisito il rispetto delle norme e dell’autorità statale. La comune di Bolševo fu istituita da Jagoda, nel 1924 vicepresidente della polizia segreta, caduto in disgrazia durante il Grande Terrore e fucilato il 15 marzo 1938. Il giorno dopo l’arresto, Pogrebinskij si suicida con un colpo di pistola. Uno dei suoi allievi, poi divenuto a sua volta direttore di una colonia, ha l’ardire di organizzare in suo onore il funerale. Si suicida anche lui poco dopo l’arresto. La moglie di Pogrebinskij è condannata a otto anni di lager, il fratello alla fucilazione. Il libro ritirato da tutte le biblioteche russe e distrutto. Un libro che celebra i successi di Bolševo, stampato in 50.000 copie nel 1936, è ritirato da tutte le biblioteche e nei pochi esemplari conservati sono state asportate illustrazioni e strappate pagine, per evitare che i possessori potessero essere accusati di collusione con i “nemici del popolo”. Circa la metà degli ex-besprizornye, ospiti di Bolševo, oramai recuperati al lavoro, sono fucilati nel 1938 nel poligono di Butovo.

Il nome di Pogrebsinskij è così cancellato dalla storia della lotta contro la besprizornost’, per lasciare spazio soltanto a quello di Makarenko e al suo Poema pedagogico (1932-37), nonostante condividessero l’approccio, gravitante attorno all’idea di disciplina cosciente e di rieducazione attraverso il lavoro, nonostante raccontassero lo stesso romanzo di formazione, da besprizornyj a pioniere, e poi a giovane comunista, e quindi a maturo e responsabile cittadino sovietico. Nonostante mettessero in secondo piano, o comunque superabili dialetticamente, l’urto della realtà che invece aveva raccontato per esempio Vertov in Kinoglaz (1924), quando aveva mostrato l’enorme difficoltà, se non l’impossibilità, che dovevano sostenere i giovani pionieri quando dovevano provare a ricondurre all’uomo nuovo ciò che secondo il Partito era riducibile a retaggio del passato: gli alcolisti, i malati di mente e, appunto, i besprizonrye.

Anche per molta pedagogia occidentale, fiduciosa nelle strategie sovietiche di recupero di quei bambini abbandonati, il nome di Makarenko finì per essere inteso come il centro della pedagogia sovietica, occultando tutto il lavoro svolto da altri educatori come Pogrebinskij, che pure ne avevano condiviso l’approccio correzionale, o da altri approcci pedagogici, come quelli che potevano provenire dalla pedologia di Vygotskij. Per intendere ancora meglio in che modo la memoria di quegli anni sia stata costruita e continuamente rimaneggiata, si pensi a un film oggi dimenticato, ma che negli anni trenta ebbe vasta risonanza, anche tra il pubblico occidentale, presentato con successo al Festival di Venezia: Un biglietto di viaggio per la vita (1931) di Ekk.

Il film ripercorre le prime fasi dell’istituzione di una comune, ispirandosi alla Fabbrica degli uomini. I primi spettatori russi del film potevano riconoscere nel direttore della colonia nel film la figura di Pogrebinskij, anche per via di un particolare, il cappello kazako che portava sempre. Gli spettatori degli anni successivi, vi leggevano un personaggio di fantasia, magari ispirato da Makarenko e dalla colonia Gor’kij da lui diretta, come a loro volta molti spettatori occidentali, John Dewey su tutti, furono esaltati dal successo di quel modello educativo, spesso poi riproposto in tanto cinema dedicato al tema dell’infanzia abbandonata, mentre il suo protagonista, Mustafa, ossia l’attore Jyvan Kyrla, ex-besprizornyj, moriva in un lager.

Già dal 1925 il Partito invitava a non pubblicare dati statistici sull’infanzia abbandonata, ma dal 1935, da quella risoluzione sulla delinquenza giovanile, la besprizornost’  è considerata come risolta, secondo la formula iperrealista del realismo socialista: la realtà ideale, il mito, è qualcosa di già esistente, che sociologi e narratori devono descrivere nei modi della mimesi naturalistica. Non ci sono orfani della Rivoluzione.

Riferimenti bibliografici
L. Mecacci, Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935), Adelphi, Milano 2019.  
A.M. Ball, And now my soul is hardened. Abandoned children in Soviet Russia, 1918-1930, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1994.
D. Caroli, L’enfance abandonee et délinquante dans la Russie soviétique (1917-1937), L’Harmattan, Paris 2004.
A. Makarenko, Poema pedagogico, a cura di Nicola Siciliani de Cumis, L’Albatros, Roma 2009.

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