“Il padre è il padre,
sta dentro a una canzone,
è il primo amore”.
Il cratere
In un senso non molto diverso da quello del credo cattolico – «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, dalla stessa sostanza del Padre» – nel nostro essere tutti costitutivamente figli, siamo creati dalla madre ma generati dal padre. La madre crea, il padre genera: dal buio del ventre materno veniamo alla luce del mondo e il primo contatto con il mondo esterno, il nostro primo fuori, è il padre. Perché è con il padre che si esce dalla diade simbiotica madre-figlio per costituire il gruppo famigliare ed è da questo che deriva, secondo Zoja (2016), il«paradosso del padre»: l’essere una figura che agisce dall’interno (la famiglia) ma costantemente aperta ad un fuori (la società): è il padre che insegna al figlio a essere nella società, così come la madre gli ha insegnato a essere nel proprio corpo.
Il cinema italiano contemporaneo, tracciando un percorso tematico che abbiamo individuato a partire dal 2017 (Tucci 2018), continua a produrre storie di padri. Padri assenti, padri-padroni, soprattutto padri cercati. Perché anche se oggi l’autorità del padre si è democratizzata e la sua forza si è disciolta, l’inconscio collettivo di una società patriarcale come quella occidentale non è riuscito ad eliminare in poche generazioni ciò che lo ha dominato per millenni. Il padre continua ad essere cercato e, in luogo di una mancanza, il cinema fa parlare, mettendola in immagine, una nostalgia inconscia e collettiva, che è la nostalgia dei padri. È questa nostalgia, nel senso etimologico del nostos – “dolore del ritorno” – il sentimento dominante del secondo lungometraggio di finzione dei documentaristi Silvia Luzi e Luca Bellino, Luce, presentato all’ultima edizione del Locarno Film Festival e ora in programmazione nella sezione “Alice nella città” della Festa del Cinema di Roma.
Come già nel precedente Il cratere (2017), ancora una volta al centro della storia è un rapporto padre-figli e, ancora una volta, e significativamente, si tratta di una figlia femmina: li era Sharon, qui una protagonista senza nome magnificamente interpretata da Marianna Fontana. Ancora una volta di questo rapporto tra padri e figlie agli autori interessa evidenziare la dinamica di relazione, di potere, che prosegue in Luce anche se ribaltata rispetto a Il cratere: li Sharon cerca di fuggire dalla prigione paterna (un padre-padrone che vuole sfruttare il talento canoro della figlia per arricchirsi), qui la protagonista cerca di recuperare un rapporto con il padre in prigione. Dove Rosario Caroccia era quindi presenza ingombrante in tutto il film, qui il padre non si vede mai, ridotto a una voce al telefono (quella di Tommaso Ragno).
La dinamica di potere padre-figlia all’interno di quel microcosmo societario costituito dalla famiglia (la figlia che teme che il padre sia arrabbiato con lei, il padre che vieta bruscamente alla figlia di telefonarle mantenendola in uno stato di subordinazione rispetto a lui), diventa contraltare delle dinamiche di potere e sfruttamento della società: “Qua è uguale a là” dirà il padre alla figlia. E infatti tutto della vita della protagonista sembra riprodurre una copia della prigione paterna: la sua vita monotona e solitaria (vive da sola con il gatto Molly), le sue giornate trascorse lavorando da quando è ancora buio la mattina presto a quando è già buio la sera in una conceria di pelli, dove i ganci delle pelli sembrano manette, le grate della fabbrica sbarre della prigione, il datore di lavoro un carceriere che impedisce alla protagonista di parlare al telefono.
La protagonista non ha amici, né fidanzati, è resistente ai tentativi di avvicinamento delle figure maschili che percepisce come minaccia e nella sua vita scarsamente desiderante riesce ad entusiasmarsi solo in preda all’ebrezza dell’alcool in serate trascorse in sale da ballo con uomini attempati che trasforma, nelle telefonate col padre, in attraenti stilisti tatuati. Il momento di vita colto dai registi è quindi quello più delicato per le figlie femmine, non tanto cioè l’adolescenza quando il vuoto di padre è meno critico per le figlie femmine perché il modello di età adulta è dato dalla madre, bensì più tardi quando, nella scelta del partner, le donne mancano di riferimenti, e la ricerca di un uomo può durare quindi più a lungo quanto più lunga e infruttuosa è stata la loro ricerca del padre: “Che belle le figlie femmine, che bella una figlia femmina come a te” le dice il padre al telefono, ammiccando anche a una sottile linea incestuosa che il film sdogana senza rimarcarla troppo.
La ricerca della protagonista si mette quindi in moto in questa fase delicata della vita in cui la presenza del padre diventa fondamentale, quando si è in cerca dell’amore, quando non si è più (solo) figlia (la madre è assente e lei vive da sola) e non ancora mamma: sebbene sia circondata dai discorsi sulla maternità delle colleghe e lei stessa tratti Molly come un figlio cullandolo in braccio (“i gatti sono come i bambini” le dirà il padre), la bambina con cui deve riconciliarsi è lei. È se stessa che deve ritrovare, nel suo necessario tornare al padre, per poter accedere al mondo adulto, per iniziare a vivere davvero, senza bisogno di evadere costantemente dalla realtà (nell’alcool, nelle storie inventate che racconta al padre, nel ballo lei e nel canto lui, nel gatto di lei e nel cane di lui, nel bisogno comune a entrambi di scappare su un’isola deserta per liberarsi delle rispettive prigioni).
Ambientato in un Sud Italia lontano dalle immagini di cartolina, un luogo montagnoso, industriale, buio e cupo, claustrofobico (le concerie di pelli sono quelle del comune di Solofra in provincia di Avellino), Luce è un film in cui la dimensione visiva tra il buio delle ambientazioni e la ricerca narrativa di un orizzonte possibile, si intreccia ad un’altrettanto preponderante dimensione sonora in cui il padre è ridotto a una voce, una voce quasi fantasmatica (“i padri sono strani, noi preferiamo fare i fantasmi perché a fare i fantasmi siamo più bravi”), una voce in grado, ad ogni telefonata, di bloccare il respiro alla protagonista anche nella sua assenza, così come la presenza del padre bloccava la voce di Sharon quando toppava nello studio di registrazione. Ancor più del precedente, dove comunque l’intreccio era funzionale al racconto della storia, qui la storia quasi scompare a vantaggio della pura espressione, di un lavoro tutto in sottrazione, sia della recitazione che della messa in scena, nonostante gli elementi colorati delle feste religiose e dei balli di gruppo nelle sale, che riproducono quelle ambientazioni kitsch del circo e delle feste di paese del film precedente, sebbene in maniera meno formalizzata e dunque, da un punto di vista espressivo, ancora più potente.
Luce è un film in cui, in linea con la poetica degli autori ormai consacrati come tra i più interessanti della scena contemporanea, “tutto è reale ma non tutto è vero”, come gli autori stessi affermano: nel film precedente il rapporto padre-figlia era complicato dal fatto che Rosario e Sharon sono davvero un padre e una figlia nella vita reale, qui Marianna Fontana è un’attrice professionista circondata da attori non professionisti: le operaie sono vere operaie che lavorano in fabbrica e la stessa protagonista, nel training precedente alle riprese, è andata davvero per tre mesi a lavorare in incognito in fabbrica, di modo da assorbire anche una mimica e una prossemica il più possibile reali, in un film che è cucito su di lei, sulle sue espressioni, sul suo solo volto, nonché su ricercati piani-sequenza in cui l’attrice recita da sola, con in mano solo un telefono.
Il finale del film si ricongiunge all’incipit de Il cratere in cui Sharon, ripassando una lezione su verismo e naturalismo, vedeva la sua immagine sdoppiata riflessa nello specchio. Qui la protagonista si specchia, sdoppiandosi, nello specchio del televisore attorno al quale la famiglia si riunisce per guardare il filmino della comunione della cugina a cui abbiamo assistito nella scena iniziale, un sacramento religioso convertito in prodotto televisivo di bassa lega con tanto di vestiti da sposa e corse sulla spiaggia. Ma è li, in quel momento immortalato dal drone, che la protagonista si vede per la prima volta, riconoscendo il suo desiderio: il momento in cui ha avuto l’intuizione, il lampo di luce, di comunicare con il padre. Nell’immagine immortalata di quel giorno della comunione e in quella riflessa ora nello specchio del televisore vediamo la protagonista letteralmente “incantata” come dice la zia (qui unico personaggio femminile in luogo della figura materna) di fronte al proprio desiderio. Ed è solo quando la protagonista riesce a dare all’urgenza del suo desiderio (la sua “ossessione”, come le dice la zia), una progettualità, che è infatti una prerogativa paterna (“ci vuole tempo per queste cose” dirà al ragazzo che l’aiuta nel piano chiedendole poi insistentemente se ha avuto notizie del padre), che si innesca il processo di ricerca (del padre e di se stessa) della protagonista, ricongiungendo la scena iniziale della comunione all’immagine filmata della stessa, nel finale.
Nel processo di umanizzazione della vita, infatti, mentre la funzione materna è quella di trasmettere il sentimento della vita (cioè il senso della vita unito al suo desiderio), la funzione paterna è quella di far esistere il limite, l’impossibile (il fatto che non tutto sia possibile), ovvero il senso della Legge nella possibilità del desiderio. Nella realizzazione del desiderio del figlio, in relazione alla Legge, è quindi l’eredità paterna a pesare maggiormente nel processo di differenziazione del figlio, ovvero nel suo passaggio dall’infanzia alla vita adulta. È così che, quando la protagonista è finalmente in grado di ri-conoscere il proprio desiderio e di «agire in conformità alla legge del desiderio che la abita» (Recalcati 2017), che può finalmente camminare libera per le strade della sua città, libera anche dallo sguardo della macchina da presa che fino a quel momento le è stato addosso e che ora può lasciarla andare seguendola sempre di spalle ma in un campo medio in cui finalmente anche i contorni della città si fanno meno asfittici e più luminosi.
È questa la non-storia di Luce, il suo percorso a ritroso, al ritorno a quel padre che ci ha generati (“è stato il padre a generarmi […] se manca il padre non ci sono figli” scriveva Euripide), all’origine simbolicamente rappresentata nel film dall’acqua del mare della scena iniziale in cui la protagonista si bagna riempiendo una bottiglietta che poi utilizzerà ogni sera delle sue smorte giornate per lavarsi e curarsi le mani bruciate dai guanti del lavoro, e il latte che la protagonista beve lasciandoselo cadere addosso mentre torna a casa nella scena finale del film. È solo tornando al padre che la protagonista può abbandonare la sé bambina (il latte che beve) per accedere al mondo adulto (anche) delle madri (le colleghe), e andare finalmente in cerca della sua luce, quella luce che nella sua etimologia greca ha a che fare con la verità della conoscenza, e che simbolicamente è la luce della vita.
Luce diventa allora la storia di ogni ricerca di se stessi, di ogni rivoluzione possibile, di ogni necessario tumulto e all’origine, in principio, è sempre un desiderio a muovere il nostro bisogno di cambiamento perché, come dice il regista del filmino alla protagonista, “i desideri sono meglio delle promesse”.
Riferimenti bibliografici
M. Recalcati, Il segreto del figlio, Feltrinelli, Milano 2017.
M. Recalcati, Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.
N. Tucci, Il ritorno del figlio. Gli eredi nel cinema italiano contemporaneo, in Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, n. 35, Infanzia, Pellegrini, Cosenza 2018.
L. Zoja, Il gesto di Ettore Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino 2016.
Luce. Regia: Silvia Luzi, Luca Bellino; sceneggiatura: Silvia Luzi, Luca Bellino; fotografia: Jacopo Maria Dr. Caramella; montaggio: Silvia Luzi, Luca Bellino; musica: Stefano Grosso, Alessandro Paolini; interpreti: Marianna Fontana; produzione: Donatella Palermo, Brokeh Film, Stemal Entertainment, Rai Cinema; distribuzione: Fandango; origine: Italia; durata: 93′; anno: 2024.