Visitare Auschwitz sta diventando sempre più un’esperienza da non perdere.
Piotr M.A. Cywiński, Non c’è una fine

Austerlitz Sergei Loznitsa

Il campo di sterminio è sempre più diventato, da alcuni anni a questa parte, anche un luogo della visione. Che se ne studi, come ha fatto Olivier Razac, il sistema spaziale che nella sua temporaneità incasella la visione e consente il controllo degli internati, che si indaghi, come ha fatto Georges Didi-Huberman, il pericolo del vedere o la tentazione e il bisogno cieco del far vedere, oppure, con Piotr Cywiński, la paradossale persistenza dell’invisibile, il controcampo non dato di sguardi sull’orlo dell’orrore, il lager si presta a divenire il campo di forze estremo per radicalizzare una nuova riflessione sui temi dello sguardo, del visibile e dell’invisibile. E ci sarebbero altri aspetti, gli sguardi pacificati (fino a quando?) dei nuovi “vicini” di cui parla Tzvetan Todorov, gli occhi ambigui e inquisitori di chi ascolta su cui scrive Primo Levi, il punto di vista non più trattenibile e raccontabile di chi ha visto la Gorgone, teorizzato da Giorgio Agamben.

Le forme di visualità del campo di sterminio hanno incrociato nel tempo le pratiche di messa in forma di quella visualità e si sono ritrovate a dibattersi nello spazio angusto di una “lacuna” che continua in sostanza a testimoniare un’impossibilità della visione. Con poche eccezioni, la storia audiovisiva dei campi è lastricata di opere che hanno deciso da che parte stare avendo a disposizione due uniche opzioni: restituire l’orrore narrativizzandolo e mostrandolo entro un perimetro cinematografico o televisivo non facilmente forzabile, oppure redistribuire quell’orrore fuori da forme narrative tradizionali, entro scelte di stile radicali e uscendo dal “lager” della trasparenza, che significa accettare l’ottusità dell’immagine, la sua durata, l’ostruzione dell’immaginario.

Simone de Beauvoir aveva ammirato in Claude Lanzmann la capacità di lavorare “sotto le mimetizzazioni”, cioè sotto le “foreste giovani”, l’“erba novella”, e a fianco dei corsi d’acqua tranquilli e delle antiche fattorie, recuperando la memoria quasi nell’impercettibile, fino a mostrarci, senza renderla visibile, la nostra mancata coscienza di quel che era successo. I luoghi vuoti di orrore, vuoti di corpi, vuoti di quell’umano che resta ininterrogabile nel processo alle baracche, ai crematori, ai fili spinati, alle betulle, ai binari, sono, in senso etimologico, scandalo per la visione, e quasi conseguentemente scandalo per la memoria e per l’esperienza, per quella che nel nostro tempo viene definita “l’attualità di Auschwitz”. Dobbiamo esercitare un “punto di vista archeologico”, che metta in relazione ciò che vediamo, ciò che è visibile oggi, con ciò che sappiamo non esserci più, con ciò che è invisibile. Nei campi di sterminio dobbiamo seguire la proposta provocatoria (e sempre più urgente nella nostra contemporaneità) di Régis Debray: dobbiamo perorare la causa dell’invisibile.

Il cineasta ucraino Sergei Loznitsa non si stanca di ripetere, nelle molte presentazioni del suo film Austerlitz (2016), che non ha voluto fare un film sulla Shoah, né sui campi di sterminio. Austerlitz è un film sulla distruzione dell’esperienza, un film che lavora sull’annullamento della consapevolezza e sulla produzione tecnica della dimenticanza. Raccontato da videocamere fisse, non occultate, poste in punti scelti per il valore formale della loro architettura e del paesaggio, il film è fatto di lunghe inquadrature in bianco e nero, nelle quali entrano ed escono persone che si muovono individualmente, oppure a piccoli o grandi gruppi e ricadono per lo più senza saperlo e, cosa più sorprendente, senza accorgersene, nello spazio filmato dalle macchine di Loznitsa. Varcano cancelli, entrano ed escono da edifici, vagano negli spazi aperti, si siedono a riposare sull’erba, tra gli alberi. Ascoltano le guide o le audioguide e parlano tra loro; hanno volti seri, giocosi, stanchi, pensierosi, vuoti.

A Loznitsa, più che la casualità di quei volti (ci sono pochissimi primi piani in Austerlitz), interessa la casualità dei corpi che si collocano in quello spazio, che tentano di relazionarsi all’indicibile, che qui assume la forma dell’inattraversabile. Austerlitz è suggestionato da una corporeità maldestra, che marca un primario e abortito tentativo di capire relazionandosi, di riempire la lacuna con i moderni mezzi di cui siamo dotati.

Oltre queste paradossali derive in uno spazio così connotato, al regista preme in egual misura l’estetica del campo, cioè il nuovo regime di visione e percezione del luogo della memoria: laddove, come diceva Jean Améry, ogni estetica per sempre crollava (a partire da quella della morte), oggi esiste un’estetica diffusa e condivisa della baracca, del crematorio, dei cancelli, delle scritte e degli alberi. Perfino Loznitsa accetta di soggiacere a tratti a quell’estetica, per scorgervi dentro il lavorio della riduzione mediale del campo e della sua magra presa di possesso da parte dei visitatori.

La parte violenta del film sono le fotografie, i brevi video, i selfie, i visitatori in posa laddove posa non può esserci, laddove quadro non può darsi, laddove il re-enactment è oscenità se a simularlo sono individui che non hanno avuto parte in quel meccanismo di morte e che, soprattutto, compiono gesti disallineati o, peggio ancora, grottescamente riallineati a ciò che in quello spazio è avvenuto. I corpi di Austerlitz, quei corpi che vogliamo di continuo ritrarre e condividere, nel campo diventano l’assurdo, nel senso etimologico del dissonante.

Austerlitz non è Shoah (Lanzmann, 1985), è il film dello sguardo inquisitorio degli ascoltatori di cui diceva Levi, che ora altro non sono che visitatori che si accontentano di riportare a casa pezzi del campo in forma fotografica e audiovisiva, se possibile con loro stessi dentro. Austerlitz è il film di molti, il nostro film, di chi non è stato, di chi fa ritorno a un altro campo, a un campo immaginario (molta critica ha insistito sullo strano effetto “parco” che si ha del lager vedendo il film): dove ci si deve mettere per scattarsi una foto in un crematorio? E perché bisogna testimoniare con un video di essere stati dentro una baracca? Oppure, è lecito filmare, da una posizione critica, questi comportamenti, usare cioè il cinema “vero” contro la produzione di immagini dal basso che oggi “in-formano” il mondo fuori da problemi etici ed estetici di sorta?

Queste sono le domande di un film fatto di silenzi e suoni, anche questi raccolti per lo più a caso. Queste sono anche le domande che vincolano, malgrado il loro autore, Austerlitz al campo e fanno di questa opera una riflessione prima di tutto sul lager come dispositivo della visione nell’oggi. I visitatori sono nel luogo della memoria per eccellenza e in maniera spesso inconsapevole lavorano a tramutarlo in non-luogo, attraverso un processo di falso trattenimento dello spazio e dei tempi presupposti dal luogo stesso, un processo che si compie a partire dai dispositivi tecnici di riproduzione che tutte quelle persone possiedono: fotocamere, videocamere, tablet, smartphone. Precipitano là dentro l’esperienza, la memoria, la presa di coscienza, scomposte allo stesso modo della realtà, ma infine non più restituite.

Austerlitz, si diceva, è un film sulla dimenticanza nell’epoca dell’immagine a tutti i costi. Non soltanto un film sui campi, d’accordo, ma un film che non si dà fuori dal discorso radicale che i campi permettono di aprire oltre l’Olocausto. Loznitsa l’ha girato a Buchenwald, Bergen-Belsen, Neuengamme, Mittelbau-Dora, ma alla fine ha tenuto nel montaggio immagini prese quasi esclusivamente a Sachsenhausen (a pochi chilometri da Berlino, dove il regista vive), perché era quello il campo in cui meglio si poteva osservare il flusso dei visitatori. Loznitsa voleva fare un film sullo sguardo, sulla dialettica tra la storia e il visibile (come aveva già cercato di fare un anno prima con l’ottimo The Event), tra la memoria e il digitale e Sachsenhausen, per le ragioni con cui aprivamo queste note, era il luogo giusto, come Birkenau lo era stato per Didi-Huberman qualche anno prima.

A questo proposito, Loznitsa mi ha detto di non aver letto un libro che davo per scontato guardando Austerlitz: Scorze di Didi-Huberman. Come l’anno prima Il figlio di Saul di László Nemes mi sembrava, a momenti, restituire il punto di vista stretto e ostruito di Immagini malgrado tutto, Austerlitz mi pareva dare forma all’archeologia fragile di Scorze.

Non solo c’è, nel film, quella coscienza della casualità che inquietava anche Didi-Huberman: alcune delle fotografie che lui stesso confida di essersi messo a scattare “a caso” per non rimanere accecato e annientato dal campo sono schermo a un’esperienza che non si riesce a fare, ed è su quella precisa idea di schermo che lavora Loznitsa. Ma c’è di più. Abbastanza presto, nel libro, Didi-Huberman, tra poesia e filologia, osserva che tutti i cartelli che vede a Birkenau con la scritta Vorsicht! (Attenzione!), risuonano in lui in modo diverso: gli pare che celino un invito a portare la vista (Sicht) verso un “davanti” (vor) dello spazio, un “avanti” (vor) del tempo, addirittura “verso una causa di quel che si vede”.

Sopra quei cartelli c’è l’invito all’esperienza, c’è la sua supposta indistruttibilità, c’è la comprensione e la memoria; in quel “davanti” e in quell’“avanti” c’è l’attualità del campo e l’approdo di uno sguardo archeologico. La cosa più tragica e più esplicitamente memorabile di Austerlitz sono i selfie: bastoni da selfie, smartphone e famiglie raccolte sotto la scritta “Arbeit Macht Frei”. Braccia e bastoni davanti, sguardo all’indietro, a perdere per sempre un campo assurdo, una scritta sinistramente pop e nel quadro corpi che non ci devono essere: un “dietro” dello spazio e un “indietro” del tempo. Austerlitz è anche un film sulla perdita della causa di ciò che vediamo, un film sul principio di retrovisione.

Riferimenti bibliografici
S. de Beauvoir, Prefazione, in C. Lanzmann, Shoah, Einaudi, Torino 2007.
G. Didi-Huberman, Scorze, Nottetempo, Milano 2014.

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