In un anonimo appartamento di un anonimo quartiere di una città giapponese si preparano i festeggiamenti per un bambino. Moglie e marito cucinano, il figlio gioca a Othello, di cui è campione. La festicciola inizia. Il bambino, di sei anni, va in bagno a giocare, cade nella vasca, stranamente piena d’acqua, sbattendo la testa. Non lo vediamo più apparire. La macchina da presa rimane fuori dalla porta del bagno. Le urla della madre Taeko chiudono la scena. Che si riaprirà nel luogo del funerale. È l’inizio di Love Life di Kôji Fukada.

Il tragico incidente è come un detonatore quieto di tutto ciò che ne scaturisce in termini di intreccio, e di tutto ciò che veniamo a comprendere sia dei personaggi che della situazione. La prima rivelazione ce l’abbiamo al funerale, con l’arrivo di Park, quello che scopriamo essere il padre biologico del bambino. Contrito e sofferente, Park darà un violento schiaffo alla sua ex compagna. Ma Park è un homeless sordomuto. Taeko, che già si sente in colpa per la morte del figlio, per non aver svuotato la vasca, si sente anche in colpa per aver trascurato Park. E dunque decide di prendersi ora cura del suo ex.

Il trauma della morte del bambino determina una frattura nella coppia. Frattura che non si esplicita, ma che avvia un movimento di allontanamento, anche regressivo. Taeko riprende a frequentare Park e lo aiuta. Gli dà temporaneamente la casa dei genitori del marito Jiro, dirimpettai. Ed è l’unica a poter parlare con lui, conoscendo il linguaggio dei segni. C’è un “due” che si isola dagli altri, e che in qualche modo gli altri esclude, anche e soprattutto attraverso il linguaggio.

Muovendosi nei micro ambienti domestici e negli spazi indifferenti e periferici della città, il film segue le relazioni tra i personaggi, lasciandosi guidare dalla loro inquietudine, in un misto di tristezza e apparente fiducia. Il senso di colpa che muove Taeko sembra nascondere una ripresa di attrazione per l’infantilismo muto di Park. Li vediamo giocare in balcone come bambini. E li vede anche Jiro che accorre, geloso, e bacia intensamente Taeko sulla bocca davanti a Park. La sua comprensione per le cure di Taeko verso il suo ex sembra scemare. Ma anche Jiro rivede la sua ex ragazza, di cui non ha mai fatto cenno alla moglie, mostrando tutta la sua “codardia”, come le dice la donna, quando si baciano teneramente.

Forse anche loro si amano ancora, o forse è qualcosa d’altro. È difficile deciderlo. La situazione di sofferenza in cui si trovano i personaggi rende indecidibili i sentimenti, i sensi di colpa si affollano, le paure e la solitudine sembrano insuperabili, così come le spinte regressive, i ritorni all’indietro, al punto in cui la tragedia non era ancora accaduta.

Ma una scelta sembra ad un certo punto definitiva. Taeko accompagna Park che deve tornare in Corea per accudire – così le dice l’ex – il padre che sta male. Quando sta per salutarlo, cambia però idea e comunica al marito che ora deve occuparsi di Park. Il suo gesto improvviso sembra corrispondere anche alla permanenza di un’attrazione. Seguendo il suo ex scopre però che non si trattava di nessuna malattia del padre ma del matrimonio di un figlio ventenne. Di quest’altro figlio Park non aveva mai parlato a Taeko.

Gli uomini sono codardi, nascondono le loro storie passate. Sono incapaci di portare alla luce anche i loro sensi di colpa. E dunque fuggono e sfuggono. Le donne da quei sensi di colpa sembrano farsi guidare, e la situazione non migliora di certo. I sentimenti si sfilacciano, si disperdono. E quando arriva una tragedia non sembrano più potersi ricomporre, perché ognuno accentua il suo isolamento. L’atto e la scelta danno forma al sentimento e lo rivelano, manifestandone anche la contraffazione, aprendo alla possibilità di ritorni.

È quello che accadrà nel bellissimo finale. Taeko tornerà da Jiro nell’appartamento dell’inizio, ora senza bambino e senza festa. “Bentornata”, “bentornato”, si dicono. Non sanno bene cosa fare. E decidono di fare insieme una passeggiata: una delle scelte più belle viste al cinema da parte di una coppia in crisi. Prima di uscire lei dice a lui “Guardami”, cercando una corrispondenza in grado di superare la colpevolezza degli sguardi bassi. La macchina da presa resterà nell’appartamento, inquadrando il fuori: palazzi e cortile con un po’ di prato. Siamo lì ad attendere tutto il tempo che la coppia ricompaia. Ci aspettiamo lo faccia ma non ne siamo certi. Ma è lì che apparirà. Passeggeranno insieme, ma un po’ a distanza, perdonando loro stessi e l’altro.

Con grande forza, il film mette in immagine un’epopea minore del quotidiano, in una tradizione profonda del cinema giapponese (che risale ad Ozu). E rappresenta i sentimenti, nell’unico modo in cui è possibile farlo, cioè riconoscendone la loro volubilità, fragilità e indecidibilità. Solo liberandosi dai sensi di colpa, e concedendo a se stessi il dono di una “passeggiata”, che attesta tutta la grazia dello stare al mondo, è possibile ricominciare sulle macerie di una tragedia. Un “rimatrimonio” che forse senza la morte del bambino non ci sarebbe mai stato. Dal tragico dell’inizio, e dalle elusioni che ne seguono, all’apertura di un finale senza parole, senza retorica, ma forse proprio per questo segnato dalla prospettiva di un riconoscimento più profondo.

Love life. Regia: Kôji Fukada; sceneggiatura: Kôji Fukada; interpreti: Fumino Kimura, Kento Nagayama, Tetta Shimada, Atom Sunada, Hirona Yamazaki, Misuzu Kanno, Tomorowo Taguchi; produzione: Nagoya Broadcasting Network (Yasuhiko Hattori), Comme Des Cinemas (Masa Sawada), Chipangu (Yoshito Oyama); origine: Giappone, Francia; durata: 123’; anno: 2022.

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