L’alter ego che Fatica sceglie nelle pagine iniziali di questo Lost in translation è Mowgli, scacciato dalla Giungla di Kipling e per il quale «l’incertezza, l’inquietudine […] esprimono un profondo, doloroso senso d’inappartenenza, lo stesso che ha in retaggio il traduttore, creatura di confine, frontaliero per indole e mestiere». Ed è così già dalle prime battute che comincia a chiarirsi, per il lettore, il senso del cliché scelto come titolo: in queste l’accento non è posto su ciò che si perde in traduzione, come spesso suggerisce l’espressione lost in translation, ma su quanto ci si perda, su quanto l’attività stessa del tradurre, di fare il frontaliero, porti con sé sempre la possibilità di trovarsi disorientato, nella Giungla, nel wild o nel Wald di Jünger, ma anche quella, volontaria, di “darsi alla macchia, d’imboscarsi”.

Il traduttore corre sempre il rischio della non appartenenza, ma può anche finire per rendersi conto di appartenere a più di una lingua, a più di una cultura. Per non perdersi del tutto, il traduttore può seguire un filo (occulto o meno), che lo aiuta non tanto nei labirinti del Minotauro, ma nello “sterminato corso della narrazione” di un romanzo come il Signore degli Anelli, dove, sembra suggerire l’immagine, non c’è una sola strada da trovare per uscire dal labirinto, ma bisogna orientarsi in libertà, esplorando strade e sentieri non lineari, per condurre l’autore straniero verso una nuova destinazione. E infatti il traduttore è uno sherpa, «che si è messo al servizio dello straniero da tradurre», ma che una volta arrivato in cima si fa da parte, non è mai il primo a raggiungere la vetta, non è lui a piantare la bandiera, né, ahimè, a scrivere il suo nome in copertina. Eppure è protagonista. La traduzione poetica è così la stella polare di Fatica: «Il fatto è che la prosa non esiste», come ricordava Mallarmé e il traduttore (ma anche lo scrittore?) scrive sempre «prigionier[o] di un ritmo»:

Al verbo occorre una voce, perché l’intonazione è quasi tutto in poesia. Il traduttore parla con labbra di straniero e deve ridestare l’eco dell’originale, la tonalità affettiva, la sostanza sonora. La sua è un’arte incarnata. Transustanziazione in pillole.

D’altronde le poesie tradotte sono, semplicemente, poesie che trovano la loro ragion d’essere in altre poesie, scritte in un’altra lingua. Fatica instilla il dubbio che la differenza tra le traduzioni e le riscritture non sia una differenza essenziale, e lo fa parlando della poesia, la forma letteraria nella quale la mano (ma anche, suggerisce, tutto il resto del corpo) di chi traduce si avverte di più ed è, per tradizione, più visibile, anche ai critici più ciechi all’opera del tradurre. Eppure sembra che autore sia anche chi traduce prosa e spesso le parole di Fatica rivelano l’oscillazione tipica dei traduttori tra la rassegnazione all’ancillarità e la consapevolezza del proprio valore di ri-scrittori.

Su questa linea sembra collocarsi anche il ricordo di un altro autore tradotto da Fatica, l’irregolare Lafcadio Hearn, uno scrittore spatriato che portava nel nome, e nei nomi, il segno delle diverse terre che gli avevano dato innumerevoli natali, non solo l’isoletta greca di Leucade, ma anche gli Stati Uniti d’America, l’Irlanda, il Giappone e forse non solo. Uno scrittore che traduce sé stesso in Giappone, incarnando la cultura locale, e ripropone testi popolari giapponesi prima in inglese e poi, di rimando, ai giapponesi stessi, dando vita a un corto circuito di immagini, di suoni, di voci, che mette in discussione non solo, e semplicemente, l’abituale direzionalità della traduzione, ma anche la sacralità, cosiddetta, dei testi classici. E così gli originali, i testi fonte, dai quali si potrebbe solo discendere e che si potrebbero per alcuni solo tradire, vengono manipolati, come se fossero riscritture, e tutto rientra in circolo.

Ogni volta che si traduce, e più che mai quando si ritraduce, si propone o ripropone al lettore non tanto un’opera straniera quanto un testo in una nuova veste acconcia nella lingua che ci accomuna. La nostra stessa lingua ci torna tradotta a sé stessa. Si tratta anche qui, qui più che mai, di riportare tutto quanto a casa.

Questo libretto della serie adelphiana dei Microgrammi non è, dunque, un libro sulla traduzione, sull’attività del tradurre, come spesso, soprattutto da diversi anni a questa parte, se ne pubblicano, e in cui un traduttore noto e rispettato raccoglie aneddoti, dubbi, riflessioni, problemi insormontabili e sormontati, esempi, insomma, degli anni passati alle prese con un mestiere che negli ultimi tempi sta finalmente uscendo dalla proverbiale invisibilità. I ricordi e le riflessioni idiosincratiche che abitano questo libretto risuonano ancora dell’oralità alla quale erano stati affidati in primo luogo: nascono, infatti, perché la traduzione era stata presa come “spunto e tema portante” per cinque “brevi interventi o scorribande” andati in onda nel 2022 alla Radio Svizzera Italiana. L’etichetta di scorribande sembra quanto mai adatta a quelli che sono scritti non tanto, come si diceva, sulla attività del traduttore, sulla materia viva e artigianale del mestiere, quanto sul “tradurre” come postura professionale, come atteggiamento interpretativo e, verrebbe da dire, come modo di vivere.

Fatica rivela un certo gusto nel sorprendere il lettore non solo sfruttando la polisemia del titolo e provando perciò a ravvivarne la natura di stereotipo, ma anche nei temi trattati: schivando gli autori e le storie che un lettore attento alle vicende della traduzione nostrana si potrebbe aspettare, su tutte la lunga questione legata alla nuova traduzione del Signore degli Anelli, Fatica si concentra su altri e forse più personali affetti. Resta un leggero dispiacere nel leggere quella sfilza di autori ai quali il traduttore avrebbe potuto dedicare qualche pagina (Joyce, Beckett, Melville, Nabokov), autori da lui “frequentati con passione e profitto nel corso del tempo”, ma forse questa scelta è essa stessa un modo per ribadire la possibilità, da parte di chi traduce, e che spesso si trova a districarsi tra i vincoli delle pagine, di seguire strade solo in parte tracciate da lui o da lei, di scegliersi la strada da sé, tra i sentieri meno battuti. Lo sherpa immaginato da Fatica, quando scrive di suo, può scegliere di andare dove vuole e liberarsi della necessità di compiacere, girovagare tra quelle «parole che sembrano dire una cosa ma ne significano un’altra».

Ottavio Fatica, Lost in Translation, Adelphi, Milano 2023. 

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