Nell’Introduzione di Antonio Sichera all’edizione integrale dell’opera poetica di Cesare Pavese (L’opera poetica. Testi editi, inediti, traduzioni, a cura di A. Sichera e A. Di Silvestro, Mondadori 2021), leggiamo che tra la fine del 1924 e l’inizio del 1925 il poeta annota questo pensiero: «Nessuno potrà mai vantarsi che Cesare Pavese abbia seguito la sua scuola. Poiché io seguo la mia, che è quella dell’universo» (Pavese in Sichera 2021, p. VIII). Un po’ di tempo dopo, il 6 ottobre 1926, in un momento cruciale e di svolta per la sua formazione poetica, Pavese scrive: «No, prendere in giro, rifare i versi agli altri non vi riesco. Vorrei poter dire qualcosa di mio, di forte, di grande, un’opera vera, ma ho sempre tanto freddo ora e il cervello tanto vuoto!» (ivi, p. IX). L’iniziale titanismo, ispirato a Percy B. Shelley, si trasforma in un atteggiamento improntato al decadentismo, in cui al centro è l’io del poeta e la sua irrequieta interiorità. L’«opera vera» arriverà un decennio dopo, con la pubblicazione nel 1936 della prima edizione di Lavorare stanca, accolta con gioia da Pavese mentre è al confino a Brancaleone Calabro a causa della sua attività antifascista («Lacrime, tripudio, auspici, bicchierata: tutto da solo»). Un’opera priva di quei tratti decadenti, legati all’esperienza angosciosa del sesso e allo straniamento dell’individuo nella città moderna, che avevano caratterizzato il periodo poetico precedente.
Che cosa era successo in quel lasso di tempo? Nel 1926 Pavese aveva scoperto la poesia di Walt Whitman, ma solamente a partire dal 1930, in occasione della stesura della tesi di laurea dedicata al poeta americano, si era immerso nel panorama lirico dell’autore, facendo un’esperienza di ascolto che avrebbe avuto significative conseguenze nel suo lavoro poetico successivo. Non più la confessione, il traboccare dell’esperienza individuale, ma – sulla scorta anche dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master – il racconto, la poesia narrativa. La pubblicazione di Lavorare stanca introduce una novità nel mondo poetico italiano dell’epoca. Immagini, paesaggi e personaggi al centro di vicende che coinvolgono la comunità, con i suoi usi, credenze, amori e tabù, in uno spettro che va dal realismo al mito, dal concreto al simbolico.
In questo movimento, nel passaggio cioè dai primi tentativi poetici alla pubblicazione della raccolta per i tipi della casa editrice Solaria, si assiste a un paradosso – particolarmente istruttivo – riguardante la ricerca e la definizione della propria voce poetica. La rivendicazione di una parola propria, autonoma e originale, radicata solamente nell’esperienza individuale, non riesce a raggiungere quella compiutezza e riuscita che invece il poeta stesso riconosce ai suoi componimenti successivi, contraddistinti da uno «stile oggettivo», segno di una «solida onestà» (Pavese 1934, p. 181).
In questo snodo, al contempo biografico e poetico, Pavese tocca uno dei temi più rilevanti della filosofia del linguaggio novecentesca: il rapporto tra singolo locutore e comunità dei parlanti, tra individuo e società. Pensiamo solamente alla celebre coppia saussuriana parole/langue, vale a dire al rapporto tra singolo atto linguistico e lingua storico-naturale, che già pone una dicotomia tra quello che può essere il mio dire, qui e ora, e la parola che mi precede, depositata in un bagaglio che ricevo dalla tradizione e dalla comunità a cui appartengo. All’inizio del suo “laboratorio poetico”, come è stato definito dai curatori del volume, Pavese pretende di non seguire alcuna scuola, di non rifare i versi degli altri, per dire qualcosa di suo, che sia assolutamente suo. Ma come scrive in Il mestiere di poeta (1934), testo che accompagnerà la seconda edizione Einaudi della raccolta Lavorare stanca (1943), il «lirismo tra di sfogo e di scavo» e «l’urlo patologico» (Pavese 1934, p. 179) avevano dato luogo ad «anni di evanescenze e strilli poetici» (ivi, p. 181) senza dunque mettere capo a quella parola propria, cui pure miravano.
Tanto più individuale, tanto meno comprensibile: questo sembra il destino della parola che, percependo come vincolante il rapporto con la lingua (dimensione sociale), cerca di pervenire a una espressività assoluta che si rovescia però nell’incomunicabilità di una individuo chiuso nel suo “linguaggio privato”. La nota argomentazione wittgensteiniana contro la possibilità di una lingua compresa e parlata da un solo locutore è particolarmente illuminante e istruttiva se applicata a quella profonda ricerca sui linguaggi dell’arte – come in un altro caso emblematico: la musica – che ha caratterizzato il Novecento. E, viceversa, tanto più comune, tanto meno involuta: questa pare la testimonianza desumibile, ancora, da Il mestiere di poeta, dove Pavese indica tre elementi alla base della trasformazione del suo linguaggio poetico:
Andavo da una parte occupandomi di studi e traduzioni dal nordamericano, dall’altra componendo certe novellette mezzo dialettali […] e finalmente la mia terza attività, tecnicamente intesa, rivelandomi il mestiere dell’arte e la gioia delle difficoltà vinte, i limiti di un tema, il gioco dell’immaginazione, dello stile, e il mistero della felicità di uno stile, che è anche il fare i conti con l’ascoltatore o lettore possibile (ivi, p. 179).
Nei tre casi, continua Pavese, l’elemento che viene in primo piano è il confronto con «una creazione linguistica a fondo dialettale», vale a dire con la lingua dell’altro, degli altri e di altre comunità linguistiche. Il primo esempio, quello della traduzione, così ben rappresentata nel volume attraverso le versioni approntate da Pavese di Omero, dei lirici greci, dei poeti latini, degli autori inglesi, tedeschi, francesi e americani, spiega in un senso tecnico che cosa vuol dire che il linguaggio è “il linguaggio dell’Altro”. Tradurre è dare all’altro la propria parola, la parola della propria lingua madre (questa la direzione privilegiata abitualmente dai traduttori) e, come mostra Pavese, in questo prestare la propria parola si riceve la lingua dell’altro, si assume il suo logos, il suo modo di pensare-parlare. Gli autori tradotti lasciano una traccia nell’italiano di Pavese, riscontrabile nella sua poesia.
Ma non basta. È proprio in questo lavoro linguistico, tra langue e parole, che il poeta ritrova la propria voce. Leggiamo ancora dallo scritto di Pavese:
Mi ero altresì creato un verso, il che, giuro, non ho fatto apposta. A quel tempo, sapevo soltanto che il verso libero non mi andava a genio, per la disordinata e capricciosa abbondanza ch’esso usa pretendere dalla fantasia. […] Sapevo naturalmente che non esistono metri tradizionali in senso assoluto, ma ogni poeta rifà in essi il ritmo interiore della sua fantasia. E mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole (che fu poi un distico dei Mari del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo segnare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano. […] Ritmavo le mie poesie mugolando. […] Ma non mi allontanai più sostanzialmente dal mio schema e questo considero il ritmo del mio fantasticare (Pavese 1934, pp. 181-182).
Il verso ritrovato da Pavese, il ritmo del suo fantasticare, è una invenzione nel senso latino dell’atto di trovare, e ritrovare, il modo peculiare in cui la lettura dei romanzi in età infantile (di nuovo la lingua dell’altro, degli scrittori amati) assumeva una cadenza, un certo passo, un incedere riconoscibile, che Sichera riscontra anche come caratteristica distintiva del Pavese traduttore. In modo particolare per quanto riguarda i greci, cui lo scrittore si dedica durante i mesi di confino, «ciò a cui mira è in definitiva il ritmo» (Sichera 2021, p. XXVI) e ancora, leggendo i successivi versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, si può scoprire una continuità metrica con Lavorare stanca: «Letta impressionisticamente essa si colloca agli antipodi di Lavorare stanca e della sua invenzione di un metro nuovo. Ma se si dispongono su una medesima riga, a coppie, i brevi versi (senari, settenari, ottonari) di ogni componimento, ci si può rendere conto facilmente di una permanenza di fondo del ritmo anapestico» (ivi, p. XXXVI).
Ancora una volta, è il ritmo lo stato nascente del linguaggio poetico, creativo senza che la sua creazione sia ex nihilo, singolare senza essere individualistico, espressivo perché non privo di forma. La lingua del poeta, in conclusione, coincide con il tentativo di “crearsi un verso”, senza che questa creazione pretenda di tornare all’impossibile grado zero di una lingua adamitica; piuttosto, Pavese ci ricorda che la voce del singolo è un distillato della polifonia linguistica della torre di Babele.
*Come immagine in evidenza un dettaglio della copertina del libro.