Il bombardamento di Qana del 30 luglio 2006 ad opera dell’aviazione israeliana contro un villaggio libanese, nei pressi del quale era stata individuata una postazione missilistica di Hezbollah, rappresenta l’evento mediatico culminante dell’operazione “Giusta Retribuzione”, intrapresa dall’IDF dal 12 luglio al 14 agosto. A seguito dell’azione israeliana, che costò la vita a 28 civili, tra i quali 16 bambini, secondo Human Rights Watch, la comunità internazionale innescò una serie di azioni che culminarono nella risoluzione n. 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la quale veniva intimato a Israele un cessate il fuoco, sancendone di fatto la sconfitta politica (Harel, Issacharoff 2008).

Tra le tante immagini veicolate sui media internazionali, una, in particolare, di maggiore effetto, ritraeva il corpo esanime di una bambina ricoperta di detriti e sangue, tra le mani di un uomo urlante, ritratti dal fotografo della AFP di origini libanesi Nicolas Asfouri. La fotografia fu pubblicata tra gli altri, sulla homepage del The Guardian e sulla prima pagina cartacea del The Independent, quest’ultima corredata dal titolo: «How can we stand by and allow this to go on?». L’esposizione del cadavere di un’innocente infrangeva, così, la barriera del pubblico pudore, dimostrando con l’immediatezza della sua stessa oscenità, l’urgenza di una rottura narrativa e politica.

Da parte israeliana, alcuni analisti provarono ad accusare Hezbollah di essersi consapevolmente servito di scudi umani, radunando dei civili in un edificio nei cui pressi avrebbero poi collocato una batteria di razzi. Alcuni blogger si spinsero addirittura a sostenere che le forze palestinesi avessero artatamente attratto il fuoco israeliano, in maniera tale da costruire uno spettacolo, nel quale i soccorritori, i familiari, i giornalisti non erano altro che personaggi di un grottesco reality show. Rimaste nel novero di isolate accuse, queste, tuttavia, piantarono un seme che darà i suoi frutti narrativi quindici anni dopo. Negli anni successivi, infatti, la logica performativa delle stories sui social avrebbe contribuito a rendere sempre più evanescenti i confini tra rappresentazione del reale e costruzione finzionale – o tra testimonianza e fabulazione, per utilizzare i due poli narrativi tra cui, per Jedlowski (2022), oscilla ogni racconto.

Il protagonismo del corpo di un narratore, infatti, quale veicolo di racconti che da smartphone a smartphone si mostra e coinvolge il corpo del narratario in una liturgia comune, esalta la dimensione spettacolare della comunicazione sui social, trasfigurandola in una sorta di continua messinscena del reale. D’altra parte, l’accusa reciproca di mettere in scena degli eventi mediatici, utilizzando i proiettili, gli ordigni e, soprattutto, le vittime, non come oggetto della narrazione, bensì come strumenti e comparse di una sorta di snuff movie o di Gran-Guignol del conflitto, è stata una delle forme più controverse anche nella guerra russo-ucraina già dal 2014 (Sazonov, Mölder, Müür, Saumets 2017), fino a giungere ai giorni nostri. L’eccidio di Bucha, i bombardamenti di Donetsk, l’esecuzione di civili e di prigionieri, gli allarmi aerei con tanto di fuga nei rifugi, durante le visite istituzionali dei leader mondiali a Kiev, perfino la stessa morte di Evgeny Prighozin (solo per citare alcuni episodi tacciati di essere il frutto di elaborate messinscene in una sorta di serial-reality dell’orrore) hanno rappresentato il terreno di scontro di feroci battaglie – che hanno coinvolto le stesse istituzioni al più alto livello – tese alla legittimazione e alla delegittimazione reciproca di una sorta di aura di realtà degli eventi narrati (Affuso, Giungato 2022). Ma è nella narrazione dell’attuale intervento armato a Gaza che tale playfication o, potremmo dire, realification della guerra, giungerà al suo climax. In essa, infatti, l’esasperata spettacolarizzazione della violenza politica organizzata tenderà a fagocitare ogni altra istanza argomentativa.

Nello spazio scenico mediatico della guerra israelo-palestinese, i confini tra violenza e spettacolarizzazione sono travolti su una scala molto più vasta e capillare di quanto non fosse già avvenuto durante gli anni della cosiddetta guerra al terrore,  con la reiterata sequenza della caduta del falling man dalle Torri Gemelle, con le foto dei torturati di Abu Ghraib o con la decapitazione di Nicholas Berg, tanto per citare alcuni dei contenuti reperibili dagli iniziati della Rete, ma tutto sommato rimasti sempre celati oltre la cortina del comune senso del pudore. Con la guerra sui social, l’esposizione della morte violenta, come simulacro del conflitto, tracima le fragili barriere dei filtri antiviolenza dei social – o le regole deontologiche dei legacy media. Nell’arena dello spazio mediatico onlife, la macabra competizione tra chi è in grado di dimostrare l’artificiosità e chi l’autenticità della realtà della guerra, assume la forma di uno spettacolo dell’orrore, in cui ognuno espone la propria interpretazione dell’osceno. Elemento centrale di tale scontro diviene, così, ciò che si può o non si può mostrare e vedere, proprio come, per il Corifeo dell’Edipo Re, lancinante diviene la questione su ciò che si deve – o non si deve – vedere, sapere, capire.

Nell’accezione di osceno di Carmelo Bene, osceno è ciò che non può trovare posto sulla skenè, sulla scena del socialmente accettabile, sullo spazio rituale, sacro e, quindi, normativo, in cui esporre la messinscena sociale. Sono molti gli episodi avvenuti dall’ottobre del 2023 che hanno reso evidente quanto il racconto della guerra nell’era dei media digitali renda poroso, sostanzialmente inconsistente, il confine tra scena e osceno. Dallo spettacolo dei corpi martoriati a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, proiettato in sala stampa da parte del Governo israeliano dinanzi ai corrispondenti internazionali; alla continua ostentazione dei cadaveri dei civili e, soprattutto, dei bambini, periti sotto i bombardamenti dell’IAF, le cui foto e video sono continuamente pubblicati su numerose pagine social da parte dei corrispondenti di guerra, intrappolati nella città assediata. Attraverso l’uccisione in real time dei civili o dei combattenti, ripresa dalle telecamere di sorveglianza, dai droni o dalle bodycam, l’osceno diviene spettacolo oltre la pornografia – come nel caso dell’attacco da parte dei miliziani di Hamas al rave party o dell’assalto alla nave cargo ad opera dei ribelli Houthi yemeniti. Per non parlare delle numerose uccisioni con armi da fuoco avvenute nelle strade di Gaza, in cui la ripresa in prima persona imita/è imitata dall’uso dei videogiochi, in particolare dai FPS (First Person Shooter) multiplayer – altro medium in cui finzionale, reale e performativo si ibridano.

Nell’accusa reciproca di riprendere – o di mettere in scena – la realtà, il racconto si tinge di simbologie, come nel caso dei 40 bambini decapitati da Hamas, smentita da vari corrispondenti ma definitivamente sancita come realtà de jure dalla dichiarazione di Biden in conferenza stampa, che asserisce, commosso, di averne visionato le immagini. Il credere si lega al vedere talmente tanto che la valutazione sull’entità dei bombardamenti sugli ospedali e sui campi profughi da parte dell’aviazione israeliana è questione di contabilità di cadaveri, estrapolati dai video su Instagram o dalle telecamere di Al Jazeera. L’attivista italo-palestinese Karem Rohana, di ritorno dal Medio Oriente, mostra in diretta Instagram sul proprio corpo i segni delle percosse riportate a seguito dell’aggressione subita da parte di sconosciuti, poco dopo essere atterrato in Italia. Nello stesso tempo, la giovanissima Plestia Alaqad, corrispondente freelance da Gaza, riprende in diretta il bombardamento in cui viene distrutta la sua abitazione e il reporter Motaz Azaiza si fa riprendere mentre culla tra le braccia il cadavere di un bambino appena estratto dalle macerie della propria casa. Wael Dahdouh, corrispondente per Al Jazeera, viene avvertito in diretta della morte di sua moglie e dei suoi due bambini, a seguito di un bombardamento israeliano; quindi, si reca, scortato dalle telecamere in tempo reale, al riconoscimento delle vittime.

Nell’ultimo stasimo del già citato Edipo Re di Sofocle, l’osceno irrompe sulla skenè, con il corpo accecato e sanguinante di Edipo, accolto dal Coro, che manifesta, da un lato la difficoltà di volgere lo sguardo verso di lui e, quindi, verso «l’orrido inguardabile, inascoltabile»; dall’altro il desiderio compulsivo di «parlare, sapere, capire». Il dialogo tra i due personaggi, tuttavia, viene improvvisamente interrotto da Creonte, nuovo tyrannus della Polis, che ordina a Edipo di ritirarsi e al Coro di vergognarsi, per aver contravvenuto le leggi sacre. «Solo ai parenti più stretti è lecito e pietoso vedere e udire i mali dei congiunti», ammonisce. La disputa sul confine tra scena e osceno viene, così, risolta come questione normativa, tutelata dall’autorità, che la esercita anche mediante la facoltà esclusiva del poter mostrare e poter vedere. D’altra parte, già Foucault (1975) aveva sottolineato come vedere e mostrare sia potere.

Nel Digital News Report 2023, il Reuters Institute di Oxford certifica un sempre più allarmante aumento, in molte democrazie occidentali, del fenomeno del cosiddetto news avoidance, ovvero della tendenza, soprattutto nei giovani, a evitare il contatto con le news. Il dato sembrerebbe essere correlato a quello più generale della sfiducia nelle istituzioni, benché detenga una certa rilevanza anche una valutazione delle news quali possibili fonti di malessere e di ansia. Più si estende la capacità di accesso all’infosfera, quindi, più sembrerebbe accrescersi la tentazione a mostrare la violenza attraverso il travalicamento del confine dell’osceno, più il Coro sembra assumere una postura difensiva tale da rigettare la propria facoltà del vedere. Ciò potrebbe essere causato, non solo dalla saturazione o da una forma di banalizzazione della violenza (cfr. Bauman 2006), ma anche da una tensione verso una possibile salvaguardia della funzione sacra dell’osceno.

Eppure, se la gestione dei confini dell’osceno è proprio questione sacra e, quindi, normativa, nell’abdicazione del Coro nei confronti di Creonte, risiede un arretramento della democrazia. È un dissidio, d’altra parte, di difficile soluzione, poiché lo stesso Edipo testimonia, sul suo stesso corpo, le conseguenze della conoscenza radicale. Quanto possiamo, come pubblico investito della responsabilità di un Re, spingerci a fondo, nel desiderio di vedere «l’orrido inguardabile, inascoltabile?». Se, dinanzi alla violenta esposizione dell’orrore, da un lato crescono la tentazione del pubblico a distogliere lo sguardo e, quindi, il rifiuto da parte dell’opinione pubblica a esercitare la propria facoltà critica; è anche vero che, dall’altro, l’alternativa è rappresentata dall’allettante e rassicurante gestione dei confini e delle regole del themenos da parte di un provvidenziale tyrannus. Non a caso, è in tempo di guerra che tale dissidio appare più importante.

Riferimenti bibliografici
A. Harel, A. Issacharoff, 34 Days: Israel, Hezbollah, and the War in Lebanon, St. Martin’s Publishing Group, New York 2008.
M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 2014.
N. Newman, R. Fletcher, K. Eddy, C. T. Robertson, R. K. Nielsen, Reuters Institute Digital News Report 2023, Reuters Institute for the Study of Journalism, Oxford 2023.
O. Affuso, L. Giungato, Il conflitto in scena. Il racconto della guerra russo-ucraino nella logica memetica e performativa, in “H-ermes. Journal of Communication”, 22, Università del Salento, Lecce 2022.
P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Mesogea, Messina 2022.
V. Sazonov, H. Mölder, K. Müür, A. Saumets, Russian Information Operations Against Ukrainian Armed Forces and Ukrainian Countermeasures (2014–2015), in ENDC Occasional Papers, 6, Tartu 2017.
Z. Bauman, Paura liquida, Laterza, Roma-Bari 2008.

Tags     Guerra, Israele, osceno, Palestina
Share