La maggior parte degli studiosi è d’accordo nell’identificare James Fenimore Cooper come il primo scrittore di racconti western. Nello specifico sono stati i cinque racconti dei Leathersotcking Tales (I racconti di Calzadicuoio), pubblicati tra il 1823 e il 1841, ad aver avuto un ruolo decisivo nello sviluppo della narrazione western, a partire dalla creazione di un eroe nuovo e peculiare. L’eroe creato da Cooper non è ancora il cowboy, che sarebbe diventato centrale nella letteratura western dagli ultimi decenni dell’Ottocento, ma lo scout che si orienta nei boschi, il cacciatore che segue le tracce, un frontier man abile con le armi ma che possiede un curioso status: è bianco ma è stato cresciuto da nativi Delaware. Così ne ha appreso le abitudini, si veste come loro e ne condivide diversi aspetti della loro filosofia di vita come una certa predisposizione alla laconicità.

Le narrazioni di Cooper, per quanto spesso eccedano in sentimentalismo e abbiano finali piuttosto prevedibili, mostrano una complessità tematica non banale e sviluppano personaggi abbastanza stratificati. Inoltre, la loro rappresentazione della violenza è piuttosto peculiare. Gli atti violenti compiuti da Hawkeye, infatti, sono molto spesso atti difensivi, ragionati e sostanzialmente inevitabili, segno di un notevole autocontrollo. In alcuni frangenti però, l’eroe di Cooper compie azioni violente che mettono in discussione la sua integrità morale e che sembrano andare contro al suo spirito da soccorritore. Questa ambiguità, che non emerge negli altri personaggi dei Leatherstocking Tales, dà avvio a una serie di eroi positivi del western che possiedono, tuttavia, anche un lato oscuro che, vedremo in seguito, diventerà caratteristico del cowboy successivi agli anni trenta. Cooper si interroga anche sull’inevitabilità della violenza durante la guerra, schierandosi più o meno apertamente vicino a quelle posizioni postilluministe che sostenevano il rispetto di alcune norme di civiltà anche in periodo bellico. Ne è un esempio evidente il capitolo diciassettesimo di The Last of the Mohicans (L’ultimo dei Mohicani), che si rifà a un evento realmente accaduto durante la Guerra dei sette anni in cui l’esercito francese permette un massacro di civili da parte degli alleati indiani.

Fin dalle sue origini, dunque, il nascente western si mescola con il più affermato romanzo di guerra e tale relazione sarà ripresa più volte nella storia del genere, soprattutto dal cinema hollywoodiano. Si pensi ad alcuni film di John Ford come Fort Apache (1948), ma anche a certi film degli anni sessanta di Sam Peckinpah, come Major Dundee (Sierra Charriba, 1965). Dunque, dalla pubblicazione di The Deerslayer (Il cacciatore di daini, 1841), l’ultimo dei Leathersotcking Tales, fino alla metà dell’Ottocento, i romanzi di frontiera imitano le narrazioni di Cooper servendosi di ambientazioni coloniali o rivoluzionarie per fornire un contesto storico alla storia. Ed è proprio in questo contesto che, solo pochi anni dopo, il mito del western si esprimerà pienamente nel cowboy.

La figura del cowboy è legata a un mestiere assai specifico: quello del mandriano. Un’occupazione in realtà non molto prestigiosa, diffusasi negli Stati Uniti dalla Guerra Civile fino agli ultimi anni del 1800. Nella mitologia western quegli anni si sono molto dilatati dando origine a migliaia di testi che raccontano di cowboy che attraversano ininterrottamente il paese in sella a un cavallo. In quel periodo, piuttosto breve in realtà, i grandi proprietari terrieri in effetti dovettero assumere molti cowboy che controllassero le mandrie nei pascoli e le scortassero lungo i percorsi del bestiame, di solito dal Sud-Ovest degli Stati Uniti al Nord. L’immaginario western ha enfatizzato questa attività, esaltandone gli aspetti epici, e ha lasciato in secondo piano quella degli esploratori, dei cacciatori e degli scout, centrali invece nel archetipo cooperiano. Il passaggio dal primo modello dell’esploratore a quello del cowboy, nelle varianti successive del pistolero, o dello sceriffo – sostanzialmente non presenti in Cooper – si afferma soprattutto grazie ai dime novels, un nuovo fenomeno culturale che conquista il mercato editoriale degli Stati Uniti a partire dalla seconda metà del 1800.

I dime novels erano dei romanzi di letteratura popolare a basso costo (un dime equivale a dieci centesimi di dollaro) che si diffusero in particolare a partire dal 1860 grazie alla casa editrice Beadle and Adams di New York. Questi romanzi erano scritti sia da giovani autori sconosciuti, sia da scrittori famosi e impegnati che tuttavia preferivano firmarsi attraverso pseudonimi. Nelle prime storie, quelle cioè pubblicate dal 1860 al 1880, gli eroi erano sempre scout, mandriani e, non raramente, cowboy che spesso si scontravano con perfidi rancher o proprietari terrieri. Dopo il 1880 iniziano addirittura a comparire anche i detective, che, a partire dai primi anni del Novecento, non di rado sostituiranno i cowboy nei romanzi e racconti western. Il successo dei dime novels porta a una generale esaltazione della frontiera americana che diviene così il tema privilegiato di molte altre forme artistiche come canzoni, racconti orali, quadri, e rappresentazioni teatrali. L’accumularsi di un corpus testuale così ampio e contemporaneamente così uniforme dal punto di vista tematico (la conquista del West e i suoi eroi), consente ben presto di giungere a una produzione culturale capace di porsi agli occhi della nazione come un veicolo comunicativo specificamente americano. In questo modo gli Stati Uniti si trovano ad avere da un lato un’epica nazionale, la frontiera; dall’altro, il western, un sottogenere della letteratura popolare attraverso cui forgiare la propria immagine nazionale.

Il mito del West è riferito sostanzialmente a due miti contrastanti. Il primo vede il West come un luogo dove gli uomini possono costruire una società migliore, un luogo dove, grazie a un ordine superiore, è possibile fuggire definitivamente dai mali della storia. Lo studioso di letteratura popolare John Cawelti definisce questo primo mito come “West as God’s country”. La concezione del West come “God’s country” ha avuto narrazioni e forme differenti attraverso la storia americana. La sua più famosa manifestazione fu quella dei coloni puritani, i quali, giunti sulle rive della Massachussets Bay all’inizio del XVII secolo videro in quelle terre il luogo ideale per instaurare la loro comunità religiosa. Da quel momento fino ai giorni nostri la speranza di fondare una comunità religiosa pura nel West è stata una costante della storia statunitense. Essa ha ispirato le migrazioni evangeliche del XVIII secolo, le colonie teocratiche del XIX e, infine, le famose comunità hippy californiane del XX secolo.

Il secondo grande mito, quasi opposto al primo, vede il West sempre come sogno di fuga ma non verso un God’s country, bensì verso una incontaminata wilderness. In questo caso l’Ovest è prefigurato come un luogo dove sia possibile scappare dalle costrizioni e dalle responsabilità della civilizzazione, cercando di ritrovare la libertà, la natura, il selvaggio. Il western ha abbracciato entrambi i modelli appena illustrati ma in due momenti diversi. Il primo modello, che dà avvio alla narrazione western come la conosciamo noi oggi – che peraltro è all’origine di una parte del cinema western classico – è quello sviluppato da Owen Wister con il suo romanzo The Virginian (1902). L’eroe di Wister, dopo aver sconfitto il villain che minaccia la comunità della sua donna, torna dalla compagna e viene così integrato nella comunità che ha salvato. Questa domestication dell’eroe diventa un cliché molto frequentato dai più importanti scrittori western dei primi anni del XX secolo, come W.S. Hart e Zane Grey, autori che ottengono un successo di vendite strepitoso.

Dunque, i primi romanzi western, e anche i primi western cinematografici, sviluppano i propri intrecci a partire dal modello “God’s country”. Indagare i motivi del perché ciò sia avvenuto non è semplice. Una possibile spiegazione è che le narrazioni western d’inizio Novecento erano perfettamente sovrapponibili all’aumento vertiginoso di ottimismo che stavano vivendo gli Stati Uniti nei primi decenni del Novecento, e che sarebbe poi collassato dopo la crisi del 1929. In effetti, lo spirito del West per molti sembrava essere la nuova guida morale per un Est ormai decadente e considerato debole. Forse non è così difficile comprendere perché questa particolare versione del West, di cui Zane Grey è stato il più prolifico esponente, diventi l’archetipo dei western di inizio Novecento. In queste storie si può infatti ritrovare una versione popolar-romantica delle tesi dello storico Frederick Jackson Turner, il quale, nel suo famoso saggio The Significance of the Frontier in American History (1893), per primo aveva ipotizzato che la frontiera a Ovest avrebbe potuto stimolare una rigenerazione politica e morale dell’Est nordamericano.

La nuova versione del western è prefigurata dallo sviluppo del Lone Ranger. Questo eroe, figura mitica soprattutto tra i preadolescenti americani dei primi decenni del Novecento, nasce probabilmente dalle ceneri di personaggi famosi dei dime novels ottocenteschi come Deadwood Dick e ottiene negli anni Trenta un nuovo e inaspettato successo. Sebbene sia un eroe totalmente buono (e i suoi nemici siano totalmente cattivi) e agisca sempre come insperato alleato della comunità dei pionieri, il Lone Ranger, alla fine della storia, rimane sempre isolato dalla comunità da lui salvata. Egli, infatti, preferisce la compagnia degli animali piuttosto che quella dei pionieri (non casualmente come l’eroe di Cooper) e, una volta svoltosi il vittorioso scontro finale, abbandona la comunità salvata partendo verso un’altra avventura. In una forma più articolata questo schema diventerà l’archetipo di molti film  del cinema western classico dei maggiori registi hollywoodiani come John Ford, Howard Hawks, Anthony Mann. Questo è forse il punto cruciale nello sviluppo del western, nonché del successivo poliziesco nella sua versione hard-boiled.

Se la formula del western classico prevede che il cowboy “virginiano” uccida il villain, conquisti la bella e pacifista ragazza dell’Est e diventi il nuovo leader della comunità che ha appena salvato, quella del western degli anni trenta, invece, vede l’eroe salvare il villaggio dei pionieri, ma senza che a questo segua alcuna integrazione. Al contrario, una volta esaurito il suo lavoro, l’eroe si allontana silenziosamente. I motivi di questo mutamento radicale della formula western sono molteplici.

Una prima causa è legata al mondo dei media del tempo. Infatti, il nuovo schema era certamente il più adeguato per mantenere una serialità ormai resasi indispensabile in anni di forte crisi economica. Tuttavia, questa nuova formula potrebbe anche suggerire un’altra riflessione, per certi versi più nascosta ma non meno importante: i lettori (e gli spettatori) degli anni trenta non avrebbero per nulla gradito vedere il loro eroe integrato nella comunità di pionieri. In quegli anni, infatti, il pubblico americano viene colpito nel profondo dalla già menzionata crisi economica e sociale dovuta al crollo di Wall Street. Si arriva addirittura a riconsiderare l’“American Dream” con tutti i suoi più grandi simboli. Non stupirà, quindi, che anche il western diventi più complesso e cupo, allineandosi ai sentimenti dominanti dei lettori e appassionati.

Dall’era del cowboy plasmato sul modello del “Virginian”, si passa dunque alla nuova figura dell’eroe isolato e melanconico, che diventa il modello dominante dei western degli anni quaranta e cinquanta. Di conseguenza, la comunità positiva e purificata dei pionieri diviene l’ipocrita, falsa e corrotta cittadina di High Noon (Mezzogiorno di fuoco), il bel film western di Fred Zinnemann del 1952. Le comunità di questi nuovi western hanno sempre bisogno di un eroe, ma quando egli finalmente appare e le salva, senza troppo entusiasmo, esse in realtà non hanno posto per lui. A partire dalla fine degli anni trenta, dunque, l’eroe non solo non si integrerà mai nella cittadina dei pionieri, ma la sua vittoria saprà sempre di sconfitta.

Tags     eroe, romanzo, western
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