È difficile essere un artista, oggigiorno. È difficile perché, paradossalmente, non c’è al contrario più nessun ostacolo alla possibilità che chiunque si dichiari “artista”. Infatti, una volta che l’aspetto tecnico-artigianale del lavoro artistico è passato del tutto in secondo piano (quello artistico ormai è un pensiero, non un fare), l’unico ostacolo è di tipo commerciale e/o istituzionale: occorre che il sistema dell’arte riconosca a quel chiunque la condizione di artista. Ma proprio questa difficile facilità (tutti possono dirsi artisti, ma solo pochi vengono riconosciuti come tali, per ragioni che evidentemente non hanno nulla a che fare con l’arte) rende il lavoro artistico pericolosamente futile, perché sembra avere perso ogni valore intrinseco, per non parlare di quello sociale. Allo stesso tempo, siamo circondati da un culto, insopportabile e ipocrita, dell’arte e dell’artista, proprio nel tempo in cui, al contrario, l’arte sembra sempre meno incidere sulla realtà della vita.
Il punto cieco di questa situazione è proprio nella cosiddetta opera d’arte, come evidenzia Giorgio Agamben in Creazione e anarchia. L’opera d’arte nell’epoca della religione capitalista (Neri Pozza, Milano 2018). L’artista “produce” o “crea” opere, ma in questo modo l’artista agisce esattamente così come vuole il modello sociale dominante, che ci vuole appunto produttivi e creativi. Allora, «qual è il luogo dell’arte nel presente?» (p. 10). Si tratta intanto di smontare la mitologia dell’opera d’arte: «evidentemente ciò che dev’essere abolito è l’opera, ma altrettanto evidente è che l’opera d’arte deve essere abolita in nome di qualcosa, che nella stessa arte, va al di là dell’opera ed esige di essere realizzato non in un’opera, bensì nella vita (i situazionisti intendevano coerentemente produrre non opere, ma situazioni)» (p. 12).
Ma se ci si sbarazza dell’opera ci si sbarazza anche dell’artista, l’altro feticcio dell’arte contemporanea. Culto dell’artista, prosegue Agamben, che «deriva dalla sciagurata trasposizione del vocabolario teologico della creazione all’attività dell’artista» (p. 19). In questo senso, un’arte senza opera e senza artista può di nuovo diventare esemplare, e proporsi come modello di una vita artistica. Non nel senso che si tratterebbe di una vita “bella”, o “poetica” (come quella del banchiere che dal lunedì al venerdì vende titoli “tossici” ai suoi clienti, e poi il fine settimana vola a Kassel per vedere le ultime tendenze dell’arte contemporanea); bensì nel senso di una vita non assoggettata al dispositivo politico-economico che ci vuole tutti soggetti autonomi ed efficienti, creativi e flessibili, multitasking e autoironici.
Il tema dell’arte, allora, è quello di una forma di vita artistica:
Artista o poeta non è colui che ha la potenza o facoltà di creare, che un bel giorno, attraverso un atto di volontà […] (la volontà è, nella cultura occidentale, il dispositivo che permette di attribuire le azioni e le tecniche in proprietà a un soggetto), decide, come il Dio dei teologi, non si sa come e perché, di mettere in opera. E, come il poeta e il pittore, così il falegname, il calzolaio, il flautista e, infine, ogni uomo, non sono i titolari trascendenti di una capacità di agire o di produrre opere: sono, piuttosto, dei viventi che, nell’uso e soltanto nell’uso delle loro membra come del mondo che li circonda, fanno esperienza di sé come forme di vita (pp. 27-28).
Qual è la posta in gioco, in questo passaggio dall’opera e dall’artista, all’arte come forma di vita? Si tratta di mettere radicalmente in discussione la separatezza dell’arte rispetto alla vita di tutti i giorni. In questo senso una vita artistica è una vita che non è più intrappolabile dal dispositivo politico-economico del valore e dell’efficienza. Per questo quel che conta non è l’opera (che infatti ha un prezzo, come un’automobile o un missile aria-aria), bensì l’uso (cioè non proprietario) artistico della vita: «l’arte non è che il modo in cui l’anonimo, che chiamiamo artista, mantenendosi costantemente in relazione con una pratica, cerca di costituire la sua vita come una forma di vita […] in cui, come in ogni forma-di-vita, è in questione nulla di meno che la sua felicità» (p. 28).
Ecco allora qual è la posta in gioco, la possibilità di una vita felice. Il punto è che non si tratti di una felicità privata, di uno stato d’animo interno: al contrario, si tratta di immaginare una forma di vita felice, cioè una vita che non sia soltanto psicologicamente felice, bensì una vita che sia improntata alla felicità. Una felicità intrinsecamente politica, allora. Il collettivo artistico Claire Fontaine (dal nome di una celebre marca francese di prodotti per la scuola) prova ad incarnare questa felice forma-di-vita. Per questa ragione non si tratta di un artista, ma appunto di un lavoro comune e comunitario:
Claire Fontaine è un gruppuscolo fatto di gruppuscoli perché ognuno di noi è già in sé stesso molti. Lavoriamo sotto uno pseudonimo perché i nostri corpi non sono i corpi degli autori di questo lavoro, sono i ricettori di idee collettive e di problemi politici che ci attraversano, ma noi siamo dei semplici trasmettitori. Cooperiamo e partecipiamo. Non dirigiamo niente” (Fontaine 2018, p. 75-76).
Il “comunismo” implicito dell’attività di Claire Fontaine non è politico, non è ideologico, è piuttosto esistenziale, una forma di vita appunto. Per questo non c’è nessuno che diriga, perché non c’è niente da dirigere, non c’è niente da ottenere, non c’è un fine da raggiungere. Si tratta invece della «possibilità di vivere dei rapporti sociali compatibili con la produzione artistica. Il problema che poniamo qui, e che può sembrare scandalosamente elitario, in realtà ci dice qualcosa delle politiche applicate alla creazione artistica e del rapporto che queste intrattengono con la politica in generale» (p. 25).
Non si tratta di fare un uso politico dell’arte, sempre tentato e sempre fallito; si tratta di un tentativo «scandalosamente elitario» (gli artisti, almeno loro, non hanno paura delle élite) di porre l’esperienza artistica al centro delle nostre esistenze. In questo modo l’arte esce dai musei e dalle quotazioni delle case d’aste, ma anche la politica si libera dell’economia e del mito del soggetto imprenditore di sé stesso: «la storia dell’arte non si materializza sotto forma di galleria, di museo o di catalogo, ma come una serie di campi elettromagnetici che attraversano i nostri corpi e che noi attraversiamo» (p. 49).
Ma che succede ai corpi, secondo Claire Fontaine, quando sono attraversati da questi «campi elettromagnetici»? È questo il punto più interessante – e più politico – di questa “strana” poetica che è raccolta da Ilaria Bussoni in questo libro: il corpo si desoggettiva, perde cioè il recinto immunitario del soggetto proprietario. L’arte è questa potenza desoggettivante. In questa operazione si spiega anche il titolo del libro, lo sciopero umano che «descrive il movimento di rivolta più generico possibile contro ogni forma di oppressione, uno sciopero più radicale e meno specifico dello sciopero generale e dello sciopero a gatto selvaggio, che fa leva sugli effetti economici, affettivi, sessuali o emotivi implicati dalla posizione dei soggetti. Risponde insomma alla domanda: come si diventa altro da quello che si è?» (p. 120).
L’arte inscena uno sciopero umano, cioè uno sciopero da sé stessi, perché disattiva il soggetto, e quindi rende possibile una forma-di-vita comunitaria, liberata dalla proprietà privata e dal consumo, una vita ora, qui, piena, una vita “felice” come dice Agamben. In questo senso lo sciopero umano è “un mezzo puro, una maniera di creare un presente immediato laddove non c’era altro che attesa, proiezione e speranza” (pp. 120-121). Deleuze e Guattari (molto citati nel libro, insieme ad Agamben e al pensiero politico e soprattutto femminista italiani degli ‘70) direbbero che una vita del genere è una vita dell’immanenza, cioè una vita di qualcuno «che crede al mondo, non come esistente ma come possibilità di movimenti e di intensità, atti a generare ulteriori e nuovi modi di esistenza, più vicini agli animali e alle rocce» (Deleuze e Guattari 2002, p. 65).
Una vita dell’immanenza, cioè una forma-di-vita, non vive in vista di qualcos’altro, come vuole l’imperativo economico, che tesaurizza e massimizza i profitti: «produrre il presente non significa produrre il futuro» (Fontaine 2018, p. 121). Solo l’arte riesce a far coincidere la vita che si vive con questa vita, senza tuttavia che il presente sia solo l’attesa del domani, o il rimpianto di qualche ieri. Lo sciopero umano diventa così una forza che costantemente produce «affermazione di estraneità» (p. 22), quella estraneità da sé stessi che consente, finalmente, di porre a tema quanto oggi è per definizione impensabile, la pretesa sovrana del soggetto sul corpo e il mondo. Perché il soggetto proprietario è il principale dispositivo biopolitico del nostro tempo. L’arte desoggettiva, e quindi l’arte rende possibile istituire flussi di condivisione che travalicano i confini della proprietà privata, degli stati, dei corpi: scrive Claire Fontaine in un breve testo, No family-life 2011,
Lo spazio ci dimentica […]. Si compra un pezzo di Parigi, lo si chiude a chiave a doppia mandata, si passa per due portoni con codice digitale e portineria e non vi si fa nulla che non potrebbe essere fatto altrove […] in questo frammento di Parigi non c’è posto per nessuno. [Capiamo] che siamo, mentre ci appoggiamo alla ringhiera antica per fumare una sigaretta controllando il nostro cellulare, irrimediabilmente soli e che è troppo tardi. Perché una vita a 7500 euro al metro quadro non è una vita innocente, non è una vita accessibile, non è una vita aperta, libera avventurosa e interessante. È una vita privata (p. 163).
Lo sciopero umano si libera di questo feticcio, e questo feticcio coincide con il regime economico attuale, della “vita privata”, cioè chiusa, impaurita, protetta e diffidente. L’arte è inconciliabile con la “vita privata”, proprio perché l’arte non è di qualcuno, non si rinchiude in un’opera, al contrario, è un movimento, un flusso, è vita: «l’arte è uno spazio di defunzionalizzazione delle soggettività. Le singolarità vi emergono emancipate da ogni utilità. E proprio come spazio puramente estetico, il mondo dell’arte cela una critica potenziale dell’organizzazione della società in generale e dell’organizzazione del lavoro in particolare» (p. 36). In effetti, se l’arte produce qualcosa, produce «la possibilità di scoprire che siamo tutti singolarità qualunque, egualmente amabili e temibili, prigionieri delle maglie del potere, in attesa di un’insurrezione che ci permetta di cambiare noi stessi» (p. 74). Lo sciopero umano è così prima di tutto uno sciopero contro questa “vita privata”, che vuol dire anche una vita senza arte, senza avventura, senza incontri:
L’importanza e la difficoltà di questa idea risiedono nel fatto che si basa su un concetto che pensa contro sé stesso. E pensare contro sé stessi sarà il dovere delle rivolte a venire, perché la desoggettivazione (l’atto di prendere le distanze da ciò che siamo, di divenire altro) sarà la sola possibilità di lottare contro il nostro sfruttamento. […] Pensare contro sé stessi significherà pensare contro la nostra identità e il nostro sforzo per preservarla. Il che vuol dire smettere di credere alla necessità di identificarsi con il posto che occupiamo (pp. 204-205).
L’arte di Claire Fontaine, allora, è immediatamente politica, proprio perché è integralmente arte, e quindi non è produzione di opere d’arte; è politica perché è interessata alla vita, alla vita qualunque, quella che è scappata dalla “vita privata”, perché «lo sciopero umano non è l’invenzione di un autore, prova invece che ogni forma di individualità ipostatizzata non è nient’altro che uno sporco compromesso, il risultato di un commercio indecente con qualche forma di potere. Ciò che conta realmente nell’economia della libertà sono i rapporti umani, quello che avviene tra gli esseri» (p. 200).
Così, infine, lo Sciopero umano? Un libro comunista, e l’arte è comunista per definizione, che mostra come la vita possa sempre, in ogni momento, accendersi e diventare libertà senza scopo, gioco, movimento: «il compito dello sciopero umano è di defunzionalizzare tutte le attività utili e di restituirle alla loro creatività essenziale che disarticolerà ogni forma di oppressione”» (p. 201). È ingenua questa idea dell’arte? Sicuramente sì, ma è un’ingenuità indispensabile, perché non si vive senza ingenuità, soprattutto in tempi terribili. Anche se non crediamo più nell’ingenuità, non importa, perché l’arte è ingenua, e allora cambia il mondo, oppure non è arte, e lascia tutto così com’è.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Creazione e anarchia. L’opera d’arte nell’epoca della religione capitalista, Neri Pozza, Milano 2018.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.
C. Fontaine, Lo sciopero umano e l’arte di creare la libertà, Derive approdi, Roma 2018.