Christian (Claes Bang) è il profeta di un nuova forma liturgica, laica e apparentemente desacralizzata. Quella dell’arte contemporanea. Sin dall’esergo, quando in un’apparente performance di strada qualcuno gli ruba cellulare e portafoglio. Un accostamento – quello fra liturgia e pratica delle avanguardie – avanzato recentemente da Giorgio Agamben in Creazione e anarchia. Forme liturgiche che diventano centro dell’opera, meglio, dell’isituzione museale stessa diretta da Christian: che le cura, le concerta e le promuove con rituali condivisi fatti di donazioni, party, meeting, vernissage. In ballo è il rivisitato, e dallo strappo novecentesco delle avanguardie mai pacificato, concetto di opera d’arte: con le sue possibili derive/aperture, ben evidenziate da una imbarazzata giornalista, Anne (Elizabeth Moss), che cita le astruse parole dello stesso direttore in cerca di improbabili chiarimenti. Sino all’eventualità che la borsa della giornalista possa diventare anch’essa, in un improvvisato ready-made, “opera d’arte”.

Mentre l’attività concettuale dell’artista tende progressivamente a sostituire il carattere materico dell’opera, la lingua dell’arte contemporanea richiede dunque competenze molteplici, attenzioni, ascolti capaci di rimettere in movimento il sentire e l’interpretare. E il film, vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2017, ci accompagna in un ambiente alla ricerca di un nuovo tempo sacrale, con i suoi riti, i suoi adepti, le sue, appunto, forme liturgiche capaci di smantellare monumenti artistici dell’ancien régime (la statua di un monarca a cavallo), per lanciare nuove opere come “The Square”, un “santuario di fiducia e altruismo” dove poter condividere “uguali diritti e doveri”.

Ma non tutto fila liscio. Per cercare di recuperare gli oggetti rubati, Christian segue l’improbabile consiglio di un giovane creativo del museo: incolpando, attraverso lettere anonime, tutti gli abitanti del palazzo di periferia dal quale provengono i salvifici segnali GPS del telefonino rubato. Se l’idea sembra consentirgli di recuperare il maltolto – in arrivo con un pacco anonimo – gli procura anche le feroci rimostranze di un ragazzino ingiustamente punito dai genitori, e pieno di risentimento nei confronti di Christian. Lontano dagli agonismi intellettuali della cultura istituzionale, la selvaggia irruenza del bambino instaura un livello di sorveglianza tenero, al quale il protagonista si oppone, incapace sin’anche di chiedere scusa. Ma il dominio dell’intelletto contro la falda biologica della vita esplode, brutalmente, nella scena di sesso con la giornalista. L’impaccio dei corpi, l’imbarazzo nel mettere il preservativo, la meccanicità dell’intero atto sessuale ci gettano in un disagio prossemico senza pari. Con una deriva ilare nel contendersi clownescamente il “prezioso” sperma di lui.

Un orizzonte prospettico che si allarga nella performance dell’uomo gorilla, quando il museo d’arte contemporanea inaugura “The Square”, in un vernissage al limite fra il ludico, il tragico e il surreale. Oleg, l’uomo bestia (Terry Notary), si aggira fra tavoli riccamente imbanditi, ai quali sono seduti donors, artisti, curator: tutti alla ricerca di un biologismo esotico e seducente, che li proietti fuori dai dispositivi immunitari di una asettica contemporaneità. Facile evocare il riemerge dell’arcaico in forme patologiche: evidente la difficoltà nel tenere aperta la contaminazione tra gli orizzonti della ragione e quelli della natura, in un turismo dello spirito incapace di comprendere l’alterità passionale della (quasi) bestia. I protagonisti del vernissage ne sono attratti ma non possono gestirne l’improvvisa, violenta, deriva pulsionale: un’aporia, per cui tutto il vernissage si era messo in scena e, forse, auspicava proprio le derive fatali  dell’uomo-gorilla.

Il film valica la facile parodia sull’indecidibilità dell’opera d’arte per informare una originale riflessione sul processo di burocraticizzazione del soggetto. In termini biopolitici, il controllo, attraverso il sistema dell’arte, del vitalismo primigenio rappresentato sia dal bambino che dalla performance dell’uomo scimmia. Östlund mostra lo svelamento di questa produzione dal suo interno, sospendendo la supposta “naturalezza” del dispositivo “museo d’arte contemporanea”, per pensarne la sua mitologia come a un vuoto che rimanda soltanto a se stesso. Nonché alle sue “merci”, travestite da materia poetica. Un’arte contemporanea che auspica riflessività e interattività ma è in bilico fra stimolare o immunizzare le passioni (quelle forze vitali non mediate che riemergono dall’origine oscura nel tempo che vorrebbe rimuoverle).

Quando il centro della nuova esposizione diviene il set della campagna promozionale creata da maghi dei social, il successo mediatico della mostra è garantito: un’esplosione di like ottenuti con l’oscena rappresentazione di una bambina povera che esplode, entrando proprio nel magico quadrato portatore di pace e di speranza.

Così anche quel fighetto/povero Cristo di Christian prova una dolorosa esperienza del sé. Oltre a perdere il lavoro per l’infausta campagna promozionale, e a smarrire l’autorità sulle figlie, si trova a frugare ossessivamente nella spazzatura, oppresso, quasi soffocato, da centinaia di sacchetti di plastica, per recuperare l’indirizzo del bambino ingiustamente accusato, e chiedergli scusa. Non riesce a farlo, il piccolo burbero si è dissolto in un imprecisato altrove. A Christian resta la sua nuda vita, il quotidiano penare in una invischiante latenza di senso. Ora potrà almeno recuperare il rapporto con il corpo, il suo e quello di un’arte di “retroguardia”, dalla quale paiono giungere voci sotterranee. Forse:

L’arte non è che il modo in cui l’anonimo che chiamiamo artista, mantenendosi costantemente in relazione con una pratica, cerca di costituire la sua vita come una forma di vita: la vita del pittore, del falegname, dell’architetto, del contrabbassista, in cui, come in ogni forma-di-vita, è in questione nulla di meno che la sua felicità. (Agamben 2017,  p. 28).

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Creazione e anarchia, Neri Pozza, Vicenza 2017. 

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