Introduzione allo speciale di Giorgio Fazio
Il centenario della nascita dell’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte costituisce un’occasione preziosa per tornare a riflettere sul senso e le prospettive di una teoria critica della società oggi. Fondato nel 1923 da Felix Weil, allievo del filosofo marxista Karl Korsch, rinnovato poi nel 1931 da Max Horkheimer, divenuto nuovo direttore in seguito all’abbandono per motivi di salute dello storico Carl Grünberg, l’Institut für Sozialforschung di Francoforte rinvia alla parabola di una delle correnti più innovative e importanti del Novecento filosofico. Una linea di ricerca interdisciplinare che ha visto addensarsi, attorno a uno stesso progetto di analisi critica della società, mirato a divenire fermento di processi di emancipazione sociale e umana, oltre a Horkheimer, figure del calibro di Theodor Wiesegrund Adorno, Walter Benjamin, Erich Fromm, Otto Kirchheimer, Leo Löwenthal, Herbert Marcuse, Franz Neumann, Friedrich Pollock.
Negli interventi che compongono questo speciale, concepito in occasione di questa ricorrenza, si prendono in esame alcune linee di riflessione caratteristiche della teoria critica francofortese, che ancora oggi possono fornire stimoli per la riflessione contemporanea e la diagnosi critica del presente. Ci si sofferma sull’idea tipicamente francofortese di una critica dell’industria culturale (Leonardo Distaso), sull’originale ruolo assegnato alla psicoanalisi nell’analisi delle regressioni politiche autoritarie e dei paradossi della modernizzazione capitalistica (Luca Micaloni), sulla teoria estetica di Adorno (Stefano Marino), infine sull’elaborazione del tema della sfera pubblica in Jürgen Habermas (Luca Corchia). Proprio quest’ultimo contributo rinvia a un dato di particolare rilievo: ossia che la vicenda della Scuola di Francoforte non si è esaurita con la prima generazione dei suoi teorici, ma è proseguita anche dopo, rinnovandosi attraverso il passaggio di testimone ad altre generazioni di autori e di autrici, che hanno immesso in questa tradizione nuovi contenuti e nuovi linguaggi, pur non disperdendo il lascito teorico consegnato in eredità dai suoi padri fondatori. Questo movimento è proseguito anche oltre Habermas e oltre la Germania, rendendo oggi questa linea di pensiero critico, nella pluralità delle sue voci e dei suoi approcci, uno degli ambiti di discussione più fertili del panorama filosofico contemporaneo
Appare sempre più evidente come lo spazio di azione della politica abbia assunto oggi i caratteri dell’industria culturale fino a sovrapporsi a essa in molti aspetti della sua azione. Il dominio che la dimensione economica esercita sullo spazio di azione della politica – che riconduce le qualità del politico alla definizione razionalistica della “buona amministrazione”, la quale rispecchia bisogni socialmente indotti dal meccanismo produzione-consumo-soddisfazione generato dal dominio di classe presente sia nelle società autoritarie come in quelle democratico-liberali – ha rovesciato l’analisi esposta da Benjamin alla fine del 1935 circa il fondamento politico della funzione sociale dell’arte. Ora più che mai, proprio sulla scorta delle decisive considerazioni finali del saggio sull’Opera d’arte, è la politica che trova fondamento nel carattere espositivo là dove la perdita della capacità autonoma di azione è compensata dall’informata richiesta di un consenso che si specchia in via preminente nelle tecniche di riproduzione. Queste trasportano l’immagine del politico e i contenuti oggettivi della politica di fronte alle masse contemporanee, composte da individui atomizzati, nell’ininterrotto flusso della comunicazione. Il controllo tecnocratico e la religione capitalistica fanno il resto.
La compiuta realizzazione dell’estetizzazione della politica è avvenuta nel momento in cui l’individuo atomizzato si è rispecchiato nell’ideologia dell’apolitico, nello iato tra attiva partecipazione allo spazio d’azione della politica e l’abbandono all’amministrazione totale del vigente basata sulla divisione sociale del lavoro. Quello che Benjamin vedeva come uno dei caratteri del fascismo – concedere alle masse la massima esposizione ed espressione senza intaccare i rapporti di proprietà né quelli di produzione – si è pienamente realizzato anche nelle democrazie liberali dove la delega del consenso fa emergere i caratteri estetizzanti della politica attraverso gli schermi dell’apicale riproduzione tecnico-comunicativa. In questo modo la politica ha assunto i caratteri dell’industria culturale in stringente analogia con quanto di essa ha pensato Adorno alcuni decenni or sono riferendosi all’arte.
In particolare, nella conferenza del 1963 dal titolo Résumé sull’industria culturale Adorno precisa che il concetto di industria culturale non intende riferirsi a una cultura che scaturisce spontaneamente dalle masse (cultura popolare), ma alla produzione e distribuzione di prodotti adatti al consumo di massa ad opera di soggetti che hanno concentrato in sé potere economico e capacità amministrativa. I consumatori dei prodotti dell’industria culturale non sono il soggetto ma l’oggetto di tale industria che lavora all’intenzionale integrazione dall’alto di essi. Le masse composte da individui atomizzati costituiscono l’ideologia dell’industria culturale verso le quali essa agisce, attraverso i mass-media, per rafforzare, estendere e consolidare una mentalità considerata immutabile. Si tratta della mentalità dominante («la voce del padrone» la chiama Adorno) imposta come un elemento “naturale” all’interno del continuum storico e che esclude tutto ciò che potrebbe metterla in discussione o che avanza un cambiamento. All’apice del successo l’industria culturale non ha bisogno di imporre la vendita dei suoi prodotti, dato che gli individui atomizzati ne introiettano gli effetti al punto tale che non li distinguono più dalle intenzioni preordinate né dai bisogni alienati. In questo modo i prodotti dell’industria culturale, standardizzati e stilizzati, diventano merci da cima a fondo adattandosi agli interessi di parte e adattando gli individui a questi interessi, facendo perdere definitivamente il carattere di protesta e di opposizione che la cultura critica ha sempre avuto nei confronti delle condizioni irrigidite nell’ambito della vita sociale.
Il richiamo adorniano alla frase del cardinale Carlo Carafa «il mondo vuole essere ingannato» – mundus vult decipi, ergo decipiatur, die Welt wolle betrogen sein – è indice dell’autodisprezzo degli individui atomizzati a fronte di ciò che gli viene propinato e senza il quale essi sentono che la loro vita diventerebbe insopportabile senza le soddisfazioni procurate dal loro adattamento. Un meccanismo che si rispecchia nel voto di coloro che, esercitando liberamente un loro diritto, votano contro sé stessi e i loro stessi interessi seguendo la loro falsa coscienza. Per inciso, anche nella successiva Teoria estetica Adorno fa riferimento a questa frase nel momento in cui inquadra il meccanismo dell’industria culturale come quel processo che ripropone agli individui, in forma feticizzata, ciò che gli era stato estraniato e che gli viene messo a disposizione come merce culturale organizzata secondo la logica del dominio interiorizzato, che consente di godere parodisticamente dell’incanto come consolazione del disincanto. È proprio del carattere borghese dell’arte che questa interiorizzazione produca quella falsa coscienza che dispiega il carattere di apparenza dell’arte come momento fondamentale dell’ideologia borghese dell’autoconservazione sociale, momento che risulta incompatibile con il concetto critico di società e compatibile con ciò che la società deve credere di essere per continuare così come è.
Ciò determina quella introiettata dipendenza dal mondo oggettivo delle cose, come ha scritto Marcuse ne L’uomo a una dimensione (la dipendenza dalle leggi economiche e dal mercato), come risultato del dominio che da un lato genera la massima razionalità nel momento in cui sostiene una società gerarchica che conserva l’asservimento all’apparato produttivo che perpetua la lotta per l’esistenza, dall’altro costruisce la falsa coscienza che si adatta e mantiene l’inumano ordine delle cose. Con l’instaurazione del dominio del sempre-uguale, inteso come quell’habitat “naturale” la cui industrializzazione si basa sui processi di standardizzazione e di razionalizzazione delle tecniche di distribuzione, siamo di fronte agli elementi-chiave della trasformazione della politica nel campo dell’industria culturale fondata sul mundus vult decipi.
Un altro aspetto sottolineato nella conferenza del 1963 è quello dell’adattamento all’ordine vigente. I prodotti dell’industria culturale obbediscono a un ordine obiettivamente vincolante senza che questo sia giustificato: l’ordine inculca le condizioni dello status quo; esso viene assunto adialetticamente e senza alcuna analisi che ne dia ragione. L’imperativo dell’industria culturale risulta essere quello del “devi adattarti a ciò che immediatamente è”, a ciò che senza alcuna riflessione costituisce la mentalità comune e ne orienta i criteri. L’adattamento prende il posto della coscienza. Ciò permette agli individui atomizzati di superare senza apparente turbamento le difficoltà che incontrano nel rapporto con tale ordine sottoscrivendo l’universale che inizialmente poteva risultare inconciliabile con i loro interessi. In questo modo l’industria culturale diventa una macchina che produce consenso e che rafforza l’autorità irrazionale nel momento stesso in cui accresce la debolezza dell’io fino a far regredire la coscienza al grado zero di adattamento e di dipendenza. La sua direzione di sviluppo è contraria a quella dell’emancipazione e dell’autonomia dell’individuo consapevole divenendo invece strumento di assoggettamento e negazione della libera affermazione della coscienza.
Le radici di queste considerazioni si trovano nel capitolo della Dialettica dell’illuminismo dedicato all’industria culturale, in particolare là dove Adorno (l’autore principale di quel capitolo) affronta il rapporto tra industria culturale e liberalismo politico. L’industria culturale è il punto di arrivo del liberalismo: le sue categorie formali e i suoi contenuti sono il frutto della cultura liberale. Il meccanismo del liberalismo economico sostiene l’esistenza dei trusts culturali che operano seguendo la regola che integra e adatta ogni forma di resistenza e di novità compaia nella realtà del sistema: ciò che oppone resistenza sopravvive solo se alla fine si integra (chi non si adegua è isolato e condannato all’impotenza culturale e economica), così che il principio del liberalismo che dà via libera a coloro che sono capaci e che accettano il sistema funziona perfettamente anche nell’industria culturale.
L’industria culturale è il frutto delle leggi generali del capitale e perciò si è sviluppata prevalentemente nei paesi industriali liberali parallelamente alla razionalità tecnologica e alle istituzioni democratiche del controllo. Una forma arretrata di resistenza all’avvento dell’industria culturale è stata proprio la rigida concezione borghese dell’autonomia dell’opera d’arte che ha ceduto di fronte alla minacciosa necessità di inserirsi nelle dinamiche del mercato e della vita sociale amministrata pena il rischio di pagare una certa libertà con il prezzo dell’isolamento e dell’alienazione. Il risultato finale è che nelle società liberali a economia capitalistica gli individui atomizzati si comportano come coloro che sono felicemente attaccati al male che gli si fa assorbiti dal meccanismo conformistico dell’industria culturale che offre loro il vero, il bene e il bello in forme che riproducono costantemente il sempre-uguale.
Non è difficile riconoscere la persistenza attuale di tale modello: nell’epoca delle masse composte da individui atomizzati oggetto dell’industria culturale, tali masse risultano altrettanto oggetto dell’ideologia politica “espositiva” che espropria ogni attiva partecipazione politica relegandola nello spazio dell’edutainment (risultato dell’incrocio di education e entertainment), ideologia che a sua volta è oggetto del dominio economico nell’attuale forma liberale del capitalismo.
Riferimenti bibliografici
T.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di F. Desideri e G. Matteucci, Einaudi, Torino 2009.
M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad.it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2010.
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999.