Napoli e la Campania sono stati e sono tuttora afflitti da una secolare pletora di scrittori ed estimatori del “popolare“ (…) ma il tutto spesso si confonde in un unico calderone dove tra un disco pop e una canzone pseudo-impegnata convivono Ernesto De Martino e Mario Merola, il “sociale“ e le canzoni della Mignonette, Lévi-Strauss, il pazzariello, Sigmund Freud, le zeppole di San Giuseppe e l’archeologia musicale di Roberto De Simone. Il tutto condito dai ritmi in controtempo di una batteria che a tempo di rock accompagna a tutto volume “emarginazione“, “sociale“, “specifico“, “territorio“, “subalterno“, “emergente“ e tutto il repertorio verbale dei nuovi parolieri di canzoni a maggior gloria di Sanremo, dei laurini e dei nuovi sacrestani.

Le parole che, nell’aprile 1978, Roberto De Simone metteva a prefazione de Il sole e la maschera, opera di Annibale Ruccello che approfondiva un’analisi antropologica e sociologica de Il vero lume tra le ombre dell’abate Andrea Perrucci, punta di diamante del teatro controriformistico di propaganda fidei dell’età barocca e che in breve tempo divenne Standardwerk per la metodologia di questo tipo di analisi testuale, rilette 45 anni dopo risultano ancora ampiamente capaci di descrivere un certo dominante volontarismo delle buone intenzioni, che oggi non meno di allora ispira e dirige tanti scrittori ed estimatori del “popolare” che, dalla posizione di chi scrive e di chi estima, regolarmente presumono di ingabbiare il “popolare” nel recinto della propria personale assertività giudicante, cui si lega l’auspicio edificante, a volte trasmesso sottotraccia, a volte sguaiatamente dichiarato, che all’agnizione più o meno letteraria di soggetti e gruppi tagliati fuori dalla partecipazione sociale faccia seguito in loro un ravvedimento morale e dunque – in ultima istanza – un produttivo addomesticamento esistenziale.

Adesso che il Napoli, dopo 33 anni, è di nuovo campione d’Italia nella disciplina sportiva che ancora gode dell’impatto più frontale sugli umori del popolo e dunque della società, che del popolo è un’astrazione concettuale ma non per questo meno dirimente, lungi dall’essersi acquietata, sembra viceversa pretendere nuova vampa la frenesia di un ceto borghese dirigente, ma endemicamente minoritario, di non saper cosa inventarsi pur di mettere il suo cappello sul senso di questa vittoria e di non lasciare la ribalta dei tempi, dei modi e dei luoghi della festa allo spontaneismo popolare. Sono le stesse persone – o al più i figli degli stessi rispettabili cittadini – che nel 1991, quando Maradona fu costretto a lasciare come un ladro nella notte la città che era stata ai suoi piedi per sette anni, sui giornali cittadini e nazionali si eressero a voce della moralità più severa e pensosa: quella che nel momento grave ci tiene a mostrare di non deflettere dalla missione di isolare i cattivi maestri dai fulgidi esempi, tanto meglio se il prezzo da pagare è pari a zero, come fu nei mesi del tiro al bersaglio contro un uomo che era in fuga – così umanamente solitaria –  dallo status di eroe, simbolo e mito, che suo malgrado aveva fabbricato all’interno di un sistema di cui si era istintivamente rifiutato di imparare e ripeterne a memoria la grammatica.

La felice eccezione di quei mesi, a Napoli, al di fuori del popolo, furono gli intellettuali e i professionisti che si riunirono nel comitato La classe non è acqua e che produssero il libro-cult Te Diegum, in cui in spalla al corpo dei testi pubblicarono anche, con allegra perfidia e quasi in presa diretta, commenti e dichiarazioni di tanti scrittori ed estimatori del popolare che, accigliati, dalle terze pagine dei giornali si affannavano a distinguere il campione dal cocainomane, il giusto dallo sbagliato, la Napoli buona (quella dei loro salottini) dalla camorra, la rettitudine del sole dalla sconcezza della maschera. È uno spasso, oggi, andarsi a rileggere quelle dichiarazioni, sublime e insieme miserrima testimonianza della capacità del ceto borghese dominante di farsi astioso e vendicativo appena il popolo (o, nel caso di Maradona, un suo unico figlio che ne prende la croce per tutti) si mostra riottoso all’addomesticamento esistenziale che con tanta solerzia gli viene indicato come l’unica delle strade possibili. Nella prefazione che scrisse al Te Diegum, tra le altre cose, Gianni Minà osservò:

C’è la sgradevole impressione che il giudizio morale su di lui non sia dettato tanto dall’aver cercato una fuga sterile dai suoi problemi con una scelta colpevole, quanto dal non essere stato capace di accettare fino in fondo il ruolo di giocattolo di lusso che la macchina del calcio gli aveva assegnato; come se presidenti, manager, giornalisti, addetti ai lavori vari si fossero sentiti traditi dalla sua incapacità di recitare la sua parte per sempre.

E così l’esempio archetipico di Maradona permette di osservare in una luce a dir poco paradigmatica quanto onerose siano le condizioni che il ceto dominante impone per propagandarsi nel suo esclusivo interesse accorato osservatore del popolare, in un ipocrita gioco di specchi in cui l’unica cosa che fa valere un peso politico resta la sua insindacata facoltà di giudizio.

Molto diversamente, per tornare all’acutissima analisi dello studio di Annibale Ruccello, chi portava nelle più sperdute contrade la rappresentazione de Il vero lume tra le ombre, ha capito che solo emancipandosi dalla lettera del testo del Perrucci avrebbe potuto e saputo fare breccia nel pubblico cui andava a proporsi e che, dunque, solo passando attraverso la sconfessione recitativa del testo scritto, si sarebbe potuto perseguire l’intento più profondo del testo stesso. E così un personaggio come Razzullo, eternamente in cerca di cibo e sempre destinato a prendere bastonate, nella recitazione a soggetto prende sangue e anima perchè sostituisce il complesso dialetto barocco del Perrucci con quello di uso quotidiano. E così già molto presto – e comunque ancora in età barocca – compare sulla scena un Sarchiapone, che nel testo del Perrucci neppure esiste, la cui oscena deformità mefistofelica indirizza l’azione drammatica meglio e più efficacemente di ogni espediente moraleggiante.

Volendo dunque giocare con il titolo dello studio di Annibale Ruccello, verrebbe da dire che il sole (il vero lume tra le ombre) sia riuscito a convincere e a conquistare non tanto attraverso l’assiologia della sua luminosità, bensì attraverso la maschera lasciata calare sul proprio volto da chi a quella luminosità volge lo sguardo, per vederla restituita alla sua personale capacità di vedere, di interpretare, di nominare, e decantata attraverso il setaccio della maschera, abito irrinunciabile per gli occhi mortali che vogliano attingere la luce del sole senza cadere nel vizio di forma di un Icaro, nè di un Prometeo.

E la maschera di Sarchiapone è così virtuosa nel permettere al pubblico della rappresentazione di interiorizzare la teleologia edificante dell’abate Perrucci, che non solo l’autore, ma anche e soprattutto i suoi committenti non batteranno mai ciglio neppure quando, a furor di popolo, il testo teatrale Il vero lume tra le ombre inizierà a propagarsi, di valle in valle e di bocca in bocca, col nome di Cantata dei pastori.

Ma se al teatro controriformista gesuitico dell’età barocca era connaturata la fertile saggezza di accogliere sotto il suo manto impulsi estranei, ma capaci di assecondare i suoi propri obiettivi con una grammatica a volte ben più efficace di quella escogitata dai suoi strateghi ufficiali (non è forse il Barocco l’epoca della complessità e della sorpresa?), nel nostro tempo di ben più desolata e immota uniformità, in occasione di una vittoria sportiva attesa invano per 33 anni, gli abati Perrucci di oggi, sprovvisti della saggezza che appartenne loro in epoche andate, ostativamente chiudono alla possibilità di lasciare mano libera ad un vitalismo percepito come infido e minaccioso e quindi si affannano a segregarlo sotto chiave, per sentirsi autorizzati poi a farne un succulento capro espiatorio ogni volta che converrà dire che il sole sia stato proditoriamente oscurato ed offeso dall’ottusaggine della maschera. Come già successe ai laurini e ai nuovi sacrestani del 1991, ai quali non parve vero che una storia di tossicodipendenza, che avrebbero sottaciuto se a carico di qualche oscuro e penoso assessore di un potere che, giova ricordarlo, in quegli anni stava autocollassando, potesse dimostrare, con un unico colpo d’accetta, che il popolo si era sbagliato, votandosi ad un imbroglione che non aveva ricambiato altrettanta devozione.

Forse ad Annibale Ruccello, che morì così giovane da non aver avuto tempo nemmeno per esprimersi sulla relazione tra il sole e la maschera in occasione del primo scudetto del Napoli nel lontano 1987, cui seguì una festa improvvisa, spontanea e felicemente ingenua, oggi in occasione del terzo scudetto sarebbe piaciuto vedere un simbolo allegro e vitale nella maschera nera che un Pulcinella gladiatore, il giocatore più prolifico di questa squadra, indossa in campo, togliendola solo per festeggiare dopo un gol, nel breve attimo di illusoria consustanziazione con il sole.

Sono tornato a Fuorigrotta, e dunque a Napoli, per vivere il terzo scudetto dal balcone da cui avevo vissuto il primo, quando la fetta di cielo era più generosa perché ancora mancava l’obbrobrio dell’inutile copertura, e poi il secondo. Intanto, dello stadio è cambiato anche il nome, ma lui, non si è mosso di lì. Mi è venuto in mente quando in An affair to remember, grande dramma d’amore hollywoodiano del 1957, Cary Grant e Deborah Kerr, dopo essersi pudicamente innamorati nell’atmosfera sospesa di una crociera tra l’Europa e gli Stati Uniti, allo sbarco si promettono di reincontrarsi dopo sei mesi sulla terrazza dell’Empire State Building, luogo non luogo in cui gli innamorati si impegnano a ritrovarsi per darsi conferma di esserci stati anche nel tempo dell’assenza. Al di là di come i protagonisti del film, tra inaspettate traversie, testimonieranno fede a quel voto simbolico, sul balcone dove ho preso appuntamento con un’amata che non era informata e che tuttavia in qualche modo ha saputo che io sono tornato per lei, ho capito che la festa è quando la vecchia ringhiera verde del balcone inizia a vibrare per il riverbero dell’entusiasmo di un gol, è quel breve attimo d’illusione.

La festa è in quell’attimo e in ciò che, passato quell’attimo, si libera e si declina senza guinzaglio e non certo la sagra paesana che ci si affanna a organizzare e possibilmente a vendere alle televisioni in pacchetto postdatato, ingaggiando scrittori ed estimatori del “popolare” di desimoniana memoria che ficchino nelle orecchie di un pubblico perbene e voglioso di stramberie l‘esotismo accomodante dell’emarginazione, del sociale, dello specifico, del territorio, del subalterno e dell’emergente.

Riferimenti bibliografici:
A. Ruccello, Il sole e la maschera, Guida, Napoli 1978.
Comitato “La classe non è acqua”, Te Diegum, a cura di V. Dini e O. Nicolaus, Leonardo Paperback Editore, Milano 1991.

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