«Big black train comin’/down the track» (One minute you’re here): fin dalle prime battute, l’ultimo disco di Springsteen ci dice che il songwriter è diventato infine ciò che è sempre stato. Last man standing, come recita il titolo di un’altra canzone dell’album, l’ultimo sopravvissuto – in primo luogo a se stesso, al successo, agli amici persi per strada, alla sua storia personale. Ma anche alla storia collettiva di questi ultimi anni, al declino del sogno americano, alle nefandezze dell’era trumpiana (adombrate forse nelle figure del “criminal clown” che usurpa il trono nel brano House of a Thousand Guitars e nel protagonista di Rainmaker, 1997, un imbonitore che promette di far piovere abusando della credulità dei disperati in cerca di salvezza). Springsteen diventa ciò che è sempre stato nel senso che riesce a riplasmare il frasario del country, del blues e del rock strappandolo al cliché e all’oleografia della conquista della frontiera, per farne il linguaggio con cui inviare la sua Lettera al presente. E se è vero che spesso il postino suona – una o due volte, non importa – e non ci trova, questa volta la Lettera di Springsteen ci sorprende mentre siamo tutti chiusi in casa (chi una casa ce l’ha).
Nessun equivoco, sia chiaro: Springsteen non è mai stato l’alfiere di un ottimismo yankee, come pure qualcuno aveva pensato (sbagliando) a causa di canzoni come Born in the USA. Né l’invito a rialzarsi, espresso all’indomani degli attacchi terroristici del 2001 nel disco The Rising (2002), poteva essere in alcun modo accostato alla politica reazionaria di Bush. L’America di Springsteen è notoriamente quella della working class e dei loosers, erede di Steinbeck (un album per tutti: The Ghost of Tom Joad, 1995), di Woody Guthrie e di Bob Dylan (cfr. Womak, Zolten Bernahrd 2012). Allo stesso tempo, la sua poetica raramente si è riuscita a spingere oltre i confini di un «patriottismo sociale» (Marqusee 2010, p. 361) tanto diffuso nell’immaginario americano quanto politicamente irresoluto.
Ora, il punto in Letter to You non è estrinsecamente ideologico, bensì intrinsecamente poetico. La parola, inattuale perché sempre in ritardo (nel caso di Springsteen, ricevuta in eredità dal canzoniere americano) o in anticipo (come monito profetico, visione notturna), viene oggi raggiunta e affiancata da una realtà che, come forse mai prima, la rende vera. L’inveramento della parola è il contrario di un “dire il vero”, inteso come adeguazione della parola alla cosa: qui è invece la cosa che, sopraggiungendo, rende vera la parola. Tutto l’armamentario di giacche di pelle, chitarre amplificate, treni in corsa e armoniche era già là, ma senza una precisa corrispondenza con nulla di presente; i vaticini, gli appelli e le esortazioni erano già comuni nelle canzoni di Springsteen. Poi è successo qualcosa che ha reso l’inventario di cavalcate rock, ballate intimiste e moltitudini in cerca di redenzione inaspettatamente attuale.
La Lettera di Springsteen diventa dunque vera nel transito tra la scrittura e l’ascolto, nel passaggio dal mittente al destinatario. Per capirci, Letter to You non è il “disco del lockdown” che pure potrebbe sembrare: non è infatti stato scritto durante l’annus horribilis e neanche a posteriori, come nel caso del già citato The Rising (sostanzialmente lo scatto d’orgoglio del Boss di fronte all’attacco alle Twin Towers), ma nasce nell’estate del 2019, in seguito a una visita a George Theiss, uno dei membri della sua prima band, il quale muore a pochi giorni di distanza. La perdita degli amici di una vita, come anche il tastierista Danny Federici (morto nel 2008) e il sassofonista Clarence Clemons (scomparso nel 2011 e sostituito in questo disco dal figlio Jake), diviene così uno dei due assi del disco, insieme alla fiera rivendicazione di una salvezza possibile attraverso la musica, e in particolare attraverso il rock (I’ll See You in My Dreams, Ghosts).
Realizzato in pochi giorni, con una fretta inusuale, il disco non viene registrato strumento per strumento – come si usa abitualmente – ma viene eseguito direttamente live dalla E Street Band, il gruppo storico del Boss, radunato per l’occasione nel suo studio privato in New Jersey. Il documentario girato da Thom Zimny e disponibile su Apple TV+ mostra, in un bianco e nero già storicizzante ed elegantissimo, il clima di quei fervidi giorni di registrazione, l’affiatamento tra i membri del gruppo e lo scorrere del tempo inciso sui volti dei musicisti.
Ma – ed è così che veniamo al primo collasso temporale – le riprese ci fanno vedere un tipo di prossimità, di interplay, che proprio in un’epoca come quella attuale sembra impossibile, essendo in contraddizione con l’ormai famigerato distanziamento sociale. Il primo messaggio di Springsteen – la forza del gruppo, la potenza del collettivo – arriva proprio ora, quando se ne sente di più il bisogno, e rende autentico quello che altrimenti potrebbe sembrare un semplice vezzo stilistico (la registrazione live) o un espediente retorico. Il messaggio, forse necessario per il mittente al momento della formulazione, diventa “vero” nel momento in cui lo riceviamo, alla fine di un 2020 rovinoso sul piano sanitario, economico e sociale.
Il secondo collasso temporale, come già accennato, è rintracciabile nella tematica della perdita: il collettivo è fondamentale, è luogo di una redenzione che nasce da un’energia capace di trascendere i singoli e di sopravvivere alla loro scomparsa. È qui che la biografia di Springsteen, semmai del tutto limitata alla sua esperienza, entra in risonanza après-coup con uno dei temi attualmente dominanti, in Europa come negli Stati Uniti: il ritorno sulla scena pubblica della morte e del cordoglio, confinati negli ultimi decenni alla sfera del lutto privato. La Lettera di Springsteen è una meditazione sulla perdita, ricca di fede e di speranza (The Power of the Prayer) e, proprio per questo, energica e non rassegnata. Una lettera postdatata, che diviene vera una volta aperta nella clausura di questi giorni.
Il terzo e ultimo ritorno al futuro deriva dalla presenza di tre canzoni (If I Was the Priest, Janey Needs a Shooter e Song for Orphans) scritte negli anni settanta e, per varie ragioni, non incluse nei precedenti album di Springsteen. Song for Orphans in particolare, il brano più dylaniano del disco, che al tempo in cui fu scritta poteva sembrare uno strascico della precedente stagione di protesta, diviene una profezia dell’oggi, con l’immagine iniziale di una moltitudine in assemblea, guidata da “black blind poet generals”, e con figli che cercano i loro padri, che però non ci sono più. In ogni caso, chiosa il Boss, “believe me, my good Linda, the aurora will shine your way”.
Scritta ieri e vera oggi, la Lettera di Springsteen è una bella notizia, a tratti struggente, da tenere a mente in tempi duri.
Riferimenti bibliografici
M. Marqusee, Wicked Messenger. Bob Dylan e gli anni Sessanta, Il Saggiatore, Milano 2010.
K. Womak, J. Zolten, M. Bernahrd, Bruce Springsteen, Cultural Studies, and the Runaway American Dream, Ashgate, Farnham-Burlington 2012.
Letter to You. Artista: Bruce Springsteen; etichetta: Columbia Records; produttori: Ron Aniello, Bruce Springsteen; origine: USA; anno: 2020.