Ci sono più cose che azzerano la libido di una storia potenzialmente riuscita di quante ne possa immaginare la filosofia della narrazione. Ma pochi escamotage narrativi sono devastanti, al cinema, come il viaggio nel tempo. Ipotesi dell’impossibilità alla base di una nutrita linea della scrittura fantastica moderna (e fondativa di una branca della fantascienza che fa capo a La macchina del tempo di H.G. Wells, 1895), nel suo canovaccio archetipico il viaggio nel tempo prevede il ritorno di uno o più protagonisti in una zona temporale del passato e descrive le conseguenze di questa nuova realtà. Ma se in Wells e in Mark Twain (con le inflessioni comiche di Un americano alla corte di re Artù, 1889) la regressione avveniva nel passato remoto e faceva sconfinare i suoi viandanti in territori favolosi in cui ogni apparente parentela col presente era negata (così che, di fatto, le zone del “passato” erano interscambiabili con galassie far far away, e in ogni caso i legami col presente andavano ricomposti, se proprio necessario, dall’intelligenza critica dello spettatore), le fantasie cinematografiche da fine Novecento in poi hanno visto nell’espediente dei viaggi nel tempo il modo migliore di riflettere sui paradossi temporali e sulle violazioni del principio di causalità, ma si sono mutate in un’autostrada senza vie d’uscita.

Benché veda i suoi sviluppi meno convenzionali nel più squalificato (a errato giudizio comune) dei generi narrativi (il rosa), per via del suo insistere sulla nostalgia e sul senso dell’irreversibile amor perduto meglio di altri codici (da Ovunque nel tempo, 1980, a Questione di tempo, 2013, uscito lo stesso anno di Before Midnight che chiude la trilogia sull’amore, ma in realtà sul tempo che passa, di Richard Linklater), il viaggio nel tempo riconosce per lo più i suoi redditizi padri nobili nei blockbuster anni ottanta. In Terminator del 1984 il capo della resistenza contro Skynet John Connor nasce proprio a causa del viaggio che suo padre fa nel passato, per impedire che la madre di John venga uccisa da un cyborg; l’anno dopo Marty McFly in Ritorno al futuro, tornando negli anni cinquanta, cerca di far mettere assieme i propri genitori al ballo scolastico, com’era successo nell’originale linea del tempo, e ricrea i presupposti perché negli anni ottanta possa esistere la sua famiglia. La sua intrusione cambia il loro carattere sociale (da sfigati a simpatici) ma non sposta di un metro la loro traiettoria esistenziale, al più la ri-sostanzia. Mentre Marty, tornato al presente, rimane esattamente com’era all’inizio. Ha rischiato di scomparire, ma non di cambiare.

Ecco il primo problema, epistemologico: i viaggiatori nel tempo non cambiano nemmeno dopo essere andati a intervenire sul proprio passato. In altre parole, la possibilità di alterare il loro passato non interferisce con la loro possibilità di esistenza: quando tornano all’oggi, sono di solito addirittura rinsaldati nella loro identità. Il che ha solo una spiegazione so to speak rubata al Mestiere di vivere di Pavese: tutto ciò che è accaduto una prima volta accade anche una seconda, accadrà una terza, e così via. Ci troviamo davanti al cosiddetto paradosso della predestinazione: tutto ciò che è successo doveva succedere, in un modo o nell’altro.

Da un lato, questa sentenza può essere interpretata come una compensazione simbolica per la spaventosa irreversibilità di ciò che siamo nel mondo reale, affacciati sul baratro della conclusione di Mefistofele nel Faust Goethiano: «Passato e puro nulla sono una perfetta unità». Dall’altro lato, la mente umana non è veramente in grado di dare forma alle alternative temporali e di spiegare come queste influirebbero sulla nostra realtà. Non potendo descrivere davvero cosa sia viaggiare nel passato, non essendo in grado di contenere nel pensiero la multidimensionalità, ci richiudiamo in una singolarità da cui non possiamo evadere, la accettiamo come se l’avessimo scelta – persino creata – noi; come Woody Allen che in Provaci ancora, Sam diceva di essersela cavata bene in una rissa dando una botta col mento sul pugno di un energumeno.

I paradossi possono essere interpretati anche come prigioni che plasmiamo per stimolarci a immaginare ogni via di evaderne. Mi sembra che il viaggio nel tempo nel giro di quarant’anni si sia trasformato in una prigione che si fa fatica a riconoscere per tale, in cui è confortevole rifugiarsi: e che questo abbia delle ricadute sulle modalità (progressivamente uniformi) in cui le storie si articolano. Due dei kolossal di qualità più impegnativi degli ultimi anni (Tenet, 2020, e Interstellar, 2014, entrambi di Christopher Nolan) puntano tutto su dei protagonisti che tornano in visita nel proprio passato e lo modificano, volontariamente o meno: solo per scoprire che alcuni eventi inspiegabili vissuti prima di viaggiare nel tempo erano stati originati proprio dai sé stessi venuti dal futuro; che gli intrighi alla base della macchina narrativa avevano loro come centro: «I’m the protagonist», dice l’eroe senza nome di Tenet prima di riannodare i fili lasciati fra passato e futuro, e trascinarci al lieto fine.

Molto di nuovo nella complicazione estrema della forma e del montaggio, niente di nuovo nella sostanza. È una meccanica che alimenta il cinema hollywoodiano degli ultimi dieci anni: dallo Star Trek di J. J. Abrams del 2009 a Men in Black 3 del 2012 ai franchise dei supereroi con X-Men – Giorni di un futuro passato, 2014, senza contare il ricorso massiccio nella seconda parte di Avengers: Endgame, 2019; ma ha una discreta vita anche oltre le saghe, se pensiamo almeno a Predestination (2014) e a una buona fetta della filmografia di Bruce Willis da Faccia a faccia (2000) a Looper (2012)? E anche il multiverso del fortunatissimo Everything Everywhere All at Once (2022), pur spostando la proiezione dal passato ai presenti simultanei del multiverso, ha scopo uguale: viaggiare nelle varie dimensioni serve a Evelyn per avere una seconda possibilità nella sua unica vita reale, per pagare le tasse in tempo, salvare il matrimonio e diventare una buona madre.

Alle profezie non si sfugge. Dietro Terminator e Ritorno al futuro s’intravede il negativo di Edipo re di Sofocle (nel film di Zemeckis l’incesto con la madre è evocato con insistenza): la sorte maledetta di Edipo si realizza nonostante i tentativi di Laio di evitarla? O proprio a causa di quegli sforzi, perché il re di Tebe è riuscito a uccidere il padre e si è accoppiato con la madre solo quando questi l’hanno incontrato senza riconoscerlo come loro figlio (perché l’avevano abbandonato proprio per timore che la profezia si avverasse)? Domande senza risposta, ma anche senza continuatori recenti. Perché l’architrave dei viaggi nel tempo contemporanei non è tragico come in Edipo re, ma trionfante: della mancanza di alternative fa una rivendicazione per fondarci un’idea di destino come slogan che sostanzia il sé. Ogni sforzo per cambiare era in realtà funzionale a capire che è giusto essere quello che si è, senza what if. Il viaggio nel tempo hollywoodiano dimostra un principio cardine dell’etica nordamericana: si può essere artefici del proprio destino, dipende solo da noi.

Predestinazione, individualismo, solitudine, successo personale (o profitto) come prova della salvezza: saremmo dalle parti di quella koiné religiosa calvinista che secondo Max Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905) ha tenuto a battesimo la modernità capitalista. Al viaggiatore nel tempo delle pochissime produzioni che ho citato (ma chi volesse approfondire non ha che da aprire il menu tematico di Netflix o di Amazon Prime) non interessa mai tornare indietro per esplorare nuovi mondi, sparire nell’ignoto continuando a esistere, evadere la propria identità e ricominciare una vita eteronima, che a ben vedere è la cosa che più interesserebbe me: rovista nel passato prossimo alla ricerca di uno specchio, per confermare che la sua esistenza non è preda del caso.

La salvezza di un destino intelligibile si compie perché il viaggiatore ha deciso così, l’ha dimostrato coi fatti, a volte con la passione pedagogica di una parabola presa da un buon manuale di self help. Altre volte, lo concediamo, con una forza negativa che mostra in piena luce le pareti della prigione: L’esercito delle dodici scimmie (1996); il brillante Arrival (2016); Donnie Darko (2001), in cui per la verità l’articolazione temporale è parecchio più complessa di una spola, tanto da formare anche il tema di un trattato immaginario contenuto all’interno del film stesso, La filosofia dei viaggi nel tempo di Roberta Sparrow.

Eventuali alternative non verranno che da narrazioni semiserie dei viaggi nel tempo senza individualismo né teleologia, che si perdono a margine del compimento di sé, come binari morti. Treno, ecco: quello che chiude l’avventura a Frittole, immaginario paese toscano del Millequattrocento (quasi Millecinque) di Roberto Benigni e Massimo Troisi in Non ci resta che piangere (1984). Nel finale i due corrono nel parco di Paliano dopo aver avvistato un treno, credendo di essere tornati in qualche punto imprecisato vicino al presente (ma, beffa crono-temporale appena suggerita, quello che vedono è una vecchia locomotiva a vapore, al massimo di primo Novecento). Arrivati davanti al posto del conducente, si trovano davanti Leonardo da Vinci che, nella scombinatezza dei suggerimenti tecnologici che i due gli avevano dato dal futuro, è riuscito a inventare il treno e, quel che è peggio, non ha mai capito il corretto regolamento dello scopone scientifico. Invece di piegare i paradossi narrativi della temporalità a una logica lineare fallendo platealmente, qui opera la logica bifronte del riso.

La favola non ha approdo, neanche fuori dallo schermo: non ci sarà mai un sequel, che era suggerito dalla conclusione improvvisata, e Troisi morirà dieci anni dopo. La comicità di una deriva nel tempo, in cui i viaggiatori non riescono mai a modificare il passato (e a impedire a Colombo di scoprire l’America), offre un’alternativa cieca alla linearità ottusa che rende le storie dei viaggi nel tempo tutte così uguali, calviniste, imperterrite, e inconsapevolmente rassegnate. Non ci resta che piangere rassegnato lo è dall’inizio, dal titolo. È bello pensare che dietro la recita a soggetto ci fosse una filosofia altrettanto semiseria dei viaggi nel tempo, un’etica opposta, profondamente cattolica e rassegnata: di chi accetta che no, non siamo mai autori di noi stessi, e il destino è scritto da non si sa chi.

Riferimenti bibliografici
J. W. von Goethe, Faust, BUR, Milano 2013.
C. Pavese, Il mestiere di vivere: diario 1935-1950, Einaudi, Torino 2020.
M. Twain, Un americano del Connecticut alla corte di re Artù, Nord, Milano 2002.
M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR, Milano 2009.
H.G. Wells, La macchina del tempo, Mursia, Milano 2007.

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