A partire dalla prima inquadratura de L’Empire, un soleggiato spicchio di cielo, Dumont confessa immediatamente che si tratterà di un’opera apparentemente costruita su valori verticali: se il cielo spinge all’elevazione, le successive distese desertiche, in cui il sole sbatte forte fino a bruciare il terreno, sono simbolo di un movimento discensionale, quasi infernale. È questo l’incipit dell’ultimo lungometraggio di Bruno Dumont in concorso alla 74° Berlinale. I protagonisti sono gli Uno e gli Zero, due forze opposte provenienti dalla profondità dello spazio che, nel tentativo di ripristinare i loro imperi e governare sul genere umano, scatenano un conflitto apocalittico in un pittoresco villaggio di pescatori situato nel nord della Francia, in particolare nella Côte d’Opale. A prima vista, L’Empire ha tutti i requisiti per essere considerato un film di fantascienza: inserendo dichiaratamente alcuni topos tipici di Star Wars come combattimenti con spade laser e navicelle spaziali, Dumont trasfigura il genere fantascientifico servendosene per una riflessione filosofica sulla condizione umana.

Nonostante di primo acchito possa sembrare che Dumont abbia abbandonato tematiche e conflitti a lui cari (come quelli sulla disumanità dell’uomo e sull’origine del male), seguendo attentamente lo svolgimento de L’Empire scopriamo in realtà che il regista francese è perfettamente coerente con i suoi intenti iniziali: al di sotto di questa guerra interplanetaria tra le due forze extra-umane, si cela la nascita di una nuova filosofia, di una tenace resistenza all’apocalisse. Come già avvenuto con la miniserie P’tit Quinquin (2014) e col suo sequel Coincoin et les z’inhumains (2018), Dumont sfrutta le presenze extra-umane nel loro rapporto con l’umano perseguendo la via del grottesco e del carnevalesco. Se fin dagli esordi (L’età inquieta, 1997; L’humanité, 1999; Twentynine Palms, 2002) Dumont ha posto al centro dei suoi interrogativi l’umano e soprattutto le sue derive verso l’animale, il selvaggio, il bestiale (Scandola, 2019, p. 169), con L’Empire la regressione dell’uomo verso il disumano si trasforma in una riflessione sul contatto tra l’umano e ciò che non lo è, cioè le forme di vita extra-terrestre

Al centro di questa guerra interplanetaria ci sono proprio gli esseri umani che, tacciati di inettitudine e inutilità, costituiscono per i due imperi solo una preda spirituale e riproduttiva. Le forze extraterrestri, come già accaduto in Coincoin et les z’inhumains, in cui gli esseri umani venivano prima clonati e poi spudoratamente governati, si appropriano dei corpi degli abitanti della Côte d’Opale strumentalizzandoli perversamente per i propri fini. Nonostante questa evidente verticalizzazione degli spazi supportata dalle due parti contrapposte, il film di Dumont privilegia l’orizzontalità umana: se le due forze extra-terrestri rappresentano le nette opposizioni bene/male, bianco/nero, alto/basso, gli umani invece, al di là delle serrate opposizioni dicotomiche, sono sempre in bilico, in mezzo, sono sempre entrambe le cose

Non avere più a che fare solamente con forme umane però comporta un’ulteriore complicazione nelle indagini poliziesche che affollano i film di Dumont: per esempio ne L’humanité, Dumont avrebbe, almeno in linea di principio, potuto rintracciare un colpevole; ne L’Empire, invece, nel momento in cui i “nemici” sono forme di vita non umane, questa possibilità diminuisce o forse si annulla totalmente. Ritroviamo anche in questo film la bizzarra coppia di gendarmi che fin da P’tit Quinquin è incaricata di investigare sui delitti e sui crimini della Côte d’Opale: il comandante Van der Weyden (Bernard Pruvost) e il suo assistente Carpentier (Philippe Jore) conducono le loro irrisolvibili indagini poliziesche sull’incidente e sulle decapitazioni che tormentano il paesino della Côte non portandole mai a termine. 

Nel caso di L’Empire le poche ma esilaranti incursioni dei gendarmi testimoniano l’intenzione del regista di descrivere attraverso la contesa fantascientifica l’andamento di una riflessione filosofica: infatti, l’impossibilità della risoluzione dell’indagine è in tutte le opere di Dumont una perfetta metafora della ricerca filosofica. È soprattutto da Coincoin et les z’inhumains che il regista, introducendo nelle sue narrazioni la presenza di forme extra-umane, estremizza la metafora dell’indagine poliziesca come forma di ricerca filosofica. Le indagini risultano ancora più inconcludenti proprio perché, come dice lo stesso comandante Van der Weyden in Coincoin et les z’inhumains, non si tratta di colpevoli umani. 

L’estremizzazione dell’indagine si manifesta in particolare nell’assunzione di una forma tragicomica che non è fatta di battute dirette, né di tempi comici precisi, ma piuttosto di una spinta verso il limite, verso l’assurdo. Il riso è provocato dall’incoerenza dei dialoghi, dall’imbarazzo accumulato dall’insopportabile durata dell’inazione, dall’esibizione plateale sia del gesto che della parola. Dumont connotando i personaggi con disturbanti tic nervosi, automatismi o portamenti bizzarri (si pensi alla camminata zoppicante del comandante Van der Weyden) produce una particolare tensione comica. Il comico però non scaturisce dall’accumulo del pieno (delle battute, delle gags), piuttosto dall’aumento del vuoto tragico: ogni azione è comica perché si ribalta nel nulla. 

La zona di confine tra il tragico e il comico è il luogo in cui si sviluppa l’instancabile lotta manichea tra bene e male: gli Uno e gli Zero sono metafora dell’antica lotta interna ad ogni uomo che Dumont porta agli estremi descrivendola come un’odissea spaziale. Difficile affermare se il regista abbia il sentore di un’apocalisse culturale (De Martino 1977), ma senza dubbio, il film di Dumont è una reazione a un momento di perdita psichica e organica rispetto a ciò che ci circonda, una manifestazione di vita culturale che presentifica il tema della fine del mondo attuale. Per De Martino l’apocalisse è culturale perché la paura per la fine, distanziandosi dalla dimensione biblica, attecchisce nella quotidianità di un determinato popolo, proprio come quello degli abitanti della Côte d’Opale dumontiana.

In conclusione, L’Empire è un film fantafilosofico che, come già le due precedenti miniserie, riflette sulla fine del mondo umano adottando una prospettiva affettuosamente ironica e forse quasi utopica: «La distopia ironica rappresenta un umanesimo affatto radicale e viene a coincidere, compiuto un intero giro dialettico, con la massima utopia» (Muzzioli 2016, p. 302-303). Infatti, nonostante un enorme buco nero stia per risucchiare tutta la galassia, mettendo definitivamente fine alle lotte tra gli Zero e gli Uno, la terra sembra invece scampare all’apocalisse: i due gendarmi illesi, dopo essersi sdraiati a terra per ripararsi dalla tormenta, montano nuovamente sulla loro vettura che riappare miracolosamente dal cielo.  

Riferimenti bibliografici
E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977. 
F. Muzzioli, Distopici paradossi marziani, in “Lo Sguardo.net”, n. 21, 2016.
A. Scandola, Lo sguardo (dis)umano di Bruno Dumont, in “Fata Morgana – Umano”, n. 37, 2019.

L’Empire. Regia: Bruno Dumont; sceneggiatura: Bruno Dumont; montaggio: Bruno Dumont, Desideria Rayner; interpreti: Lyna Khoudri, Anamaria Vartolomei, Camille Cottin, Fabrice Luchini, Brandon Vlieghe; produzione: Tessalit Productions, Red Balloon Film, Ascent Film, Novak Prod, Rosa Filmes, Furyo Films, Shelter Prod, RTBF; origine: Francia, Germania, Italia, Belgio, Portogallo; durata: 110′; anno: 2024.

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