Richard Rechtman, nel suo recente studio sulle «vite ordinarie dei carnefici», adotta un paradigma di lettura della fenomenologia della violenza, in particolare quella genocidaria, che attinge tanto alla psicoanalisi quanto all’antropologia, rifuggendo sia alla tentazione del riduzionismo culturalista sia a quella dell’etichettamento nosografico, laddove si tratta di rendere conto della complessità dell’esperienza soggettiva degli assassini di massa.

Rechtman, oltre ad essere il celebrato autore, insieme a Didier Fassin, de L’impero del trauma, ha al suo attivo una lunga pratica clinica, messa al servizio, nell’arco di quarant’anni, di pazienti sopravvissuti a violenze brutali, come quelle perpetrate dal regime dei khmer rossi di Pol Pot tra il 1975 e il 1979 in quello che è stato lo spaventoso genocidio cambogiano. È a partire da uno sguardo antropologico su orrori come quelli avvenuti in Cambogia, in Ruanda (massacro dei tutsi ad opera degli hutu nel 1994), oltreché, naturalmente, sulla Shoah, che si articola la disamina di Rechtman delle «forme di vita» degli artefici di genocidio: siamo di fronte a un’inedita e spiazzante etnografia dei carnefici.

Un punto cruciale nella definizione della realtà genocidaria è per Rechtman il concetto di «amministrazione della morte». Cosa può mai esservi di ordinario in una gestione mortifera della quotidianità, all’interno dei campi di sterminio, nella pratica delle esecuzioni sommarie, nelle “pulizie etniche”, nelle stragi jihadiste? È qui che l’analisi di Rechtman si spinge oltre la pur sconvolgente nozione di «banalità del male» di Hannah Arendt: quest’ultima, infatti, resterebbe «legata a una concezione filosofica e morale della nozione di male che, in fin dei conti, mal si accorda con il resto del discorso» (Rechtman 2022, p. 58). Il concetto di banalità, declinato da Arendt nei termini di mediocrità dell’uomo ordinario Eichmann, dovrebbe escludere qualsiasi riferimento ontologico a un male morale assoluto, sebbene gli atti genocidari, «in particolare quelli di Eichmann, hanno indiscutibilmente raggiunto un parossismo del male» (ibidem).

La ricerca storica di Christopher Browning avrebbe effettivamente «fornito la prova dell’esistenza empirica di questi ordinary men» (ivi, p. 63), esecutori ordinari di torture, uccisioni e massacri dietro ordine gerarchico, come nel caso dei riservisti della polizia tedesca incaricati dell’assassinio di migliaia di ebrei in Polonia nel corso del secondo conflitto mondiale. Browning supera l’associazione tra ordinario e mediocre fatta da Arendt, dal momento che alcuni dei carnefici erano mediocri, altri non lo erano, altri lo erano solo in determinate circostanze; non è, in questa prospettiva, un determinato vissuto, una certa storia personale o uno schema di personalità a creare il “retroterra” comune dell’assassino di massa, ma l’insieme delle «condizioni in cui si svolgono le esecuzioni e dell’ordine sociale che le ordina e le legittima», in altre parole la “situazione”.

La tesi situazionista chiama in causa tre registri di analisi: la creazione di un nuovo ordine morale, secondo cui i criteri di bene e male vengono invertiti, esemplificata al massimo grado dal regime nazista, col suo “culto della morte” e la sua ideologia di dominio e sopraffazione. Ancora, la compartimentazione della società, analizzata a fondo dal sociologo olandese Abram de Swan, per cui viene legittimata dal regime genocidario la messa a morte dell’altro, del “diverso”, di chi appartiene all’outer group, in base a criteri razziali, etnici, politici, di classe (ivi, p. 66). La “disumanizzazione” delle vittime così operata, sottolinea però Rechtman, non può spingersi fino a convincere gli assassini di non stare uccidendo degli altri uomini: cosa, dunque, può spingerli ad accettare di partecipare a queste imprese mortifere? Lo vedremo più avanti. Certo, non va sottovalutata l’opera pervasiva dell’ideologia e della propaganda e l’attivazione di meccanismi regressivi all’interno della psicologia dei gruppi e della vita di massa (questo è forse uno dei punti deboli delle tesi, peraltro molto lucide, espresse nel volume).

Il terzo registro di spiegazione situazionista è quello che si richiama all’obbedienza cieca all’autorità e al conformismo sociale, che ha dietro tutta una tradizione di esperimenti di psicologia sociale, a partire dall’arcinoto studio di Stanley Milgram. Anche qui, Rechtman ha buon gioco nel far notare come tali “dimostrazioni” in vitro di una supposta universale tendenza all’obbedienza all’autorità non reggano a un più attento esame e non possano essere perciò applicate “acriticamente” come prova di fattori psico-sociali comuni alla base degli atti dei perpetratori di genocidio.

L’argomentazione di fondo di Rechtman è che, alla fine dei conti, tali fattori comuni non possano essere individuati in quanto non sussistono, né a livello di analisi delle caratteristiche dei singoli né a livello di studio delle condizioni della società. Non esisterebbero, perciò, tratti psicologici propri del carnefice, poiché l’assassino di massa è riscontrabile in un continuum che va dal “mostro” all’uomo ordinario – dalla “incarnazione del male” al “banale”, né sarebbero sufficienti le spiegazioni situazioniste a dar conto dell’adesione di numerosissimi ordinary men a crimini di massa, proprio perché, nelle medesime situazioni e sotto le medesime pressioni, vi è chi si è negato e si nega, rifiutando di essere complice delle stragi. Qual è dunque, per Rechtman, il tratto distintivo degli amministratori della morte? Chi viene reclutato più facilmente? L’analisi delle “vite ordinarie” degli autori di genocidio, delle loro “forme di vita”, conduce a una risposta a mio avviso solo parzialmente convincente.

«Amministrare la morte consiste innanzitutto nel reclutare, all’interno dei gruppi più disponibili, uomini e donne, talvolta adolescenti, perché prendano parte a tutti i compiti che garantiscono il funzionamento efficiente di quell’amministrazione» (ivi, p. 107). Non si tratta necessariamente dei più motivati, ma semplicemente dei più disponibili. «L’unico tratto comune che ritroviamo regolarmente fra gli uomini e le donne più disponibili è appunto la loro indifferenza. Indifferenza per la sorte di coloro che incrociano solo per farli scomparire. Si tratta di uomini e donne genocidari» (ibidem).

Riprendendo il Foucault della Volontà di sapere, Rechtman osserva nei regimi genocidari un passaggio inedito in termini di biopolitica: dal far morire e lasciar vivere degli stati assolutisti, dal far vivere e lasciar morire delle società democratizzate, si approda infine al far morire e non lasciar vivere dell’amministrazione della morte nell’ambito dei genocidi. Far morire le vittime, non lasciar vivere i deportati e gli schiavizzati, legare a un’economia “tanatocentrica” gli esecutori dello sterminio, delle torture, del concentramento, della deportazione.

Ora, se è senz’altro convincente il richiamo di Rechtman alla dimensione etica e di responsabilità individuale del carnefice, sottraendo l’operato di quest’ultimo alla presa di un certo psicologismo – fosse anche di tipo psico-sociale –, ci sembra che la categoria dell’indifferenza metta da parte il ruolo dei meccanismi pulsionali sia a livello individuale sia a livello di gruppi e di masse. Rechtman è ovviamente consapevole del ruolo giocato dalla pulsione di morte e dall’aggressività sadica nell’esercizio della violenza, ma sembra non considerare, erroneamente a parere di chi scrive, la centralità di Al di là del principio di piacere nel discorso freudiano su distruttività e guerra.

Se si può essere d’accordo con l’autore sull’impossibilità di render conto della violenza genocidaria ipotizzando lo scatenamento di un sadismo incontrollato in un gran numero di persone, è anche vero che l’aggressività e la pulsione di morte sono certamente all’opera nei contesti analizzati nel libro. Esiste una lunga tradizione di studi in questo senso: fra tutti non si possono non richiamare i lavori di Franco Fornari, in primo luogo Psicoanalisi della guerra. Per inciso, con alcuni colleghi, qualche anno fa, abbiamo provato a riflettere sul rapporto tra immagini e violenza nel contesto della prigione di Abu Ghraib: in particolare, nel mio contributo al volume L’immagine carnefice, ho cercato di sottolineare come le foto “in posa” dei prigionieri mostrassero una volontà sadica di umiliazione da parte dei carcerieri anche attraverso la cattura fotografica, con un’evidente centralità nell’argomentazione dell’aspetto pulsionale.

A mio avviso, l’indifferenza che si evidenzierebbe, secondo Rechtman, dai resoconti dei carnefici, non può non essere sottoposta a un’analisi critica che tenga conto dell’attivazione da parte degli artefici di violenze e assassinî di meccanismi di difesa come la negazione, la rimozione o la repressione, volti a non far collassare la struttura dell’io e a tenere a bada memorie inevitabilmente traumatiche. Infine, difficile non rimarcare l’importanza, all’interno dei regimi genocidari, del ruolo dei più motivati, dei più opportunisti, dei più violenti, dei più sadici, la cui pressione sui meno motivati ingenera verosimilmente in questi ultimi vissuti di paura, obbedienza, sottomissione. Ciò non esime ovviamente gli “obbedienti” dall’assunzione della responsabilità morale per i loro crimini. Si sta invece affermando che l’insieme di quei vissuti può costituire un fattore situazionista di spiegazione più plausibile della disponibilità degli indifferenti fenomenologicamente enfatizzata da Rechtman.

Resta invece molto convincente l’idea, portata avanti nelle conclusioni del volume, secondo cui non esisterebbero fattori predittivi per l’individuazione del possibile perpetratore di violenza di massa, anche nello spiegare l’adesione, ad esempio, al terrorismo jihadista, in Europa e in Medio Oriente. Così come è eticamente fondamentale il rimarcare, da parte di Rechtman, che la migliore difesa da questa violenza viene proprio da tutti quelli che, nei paesi orientali e in Occidente, hanno resistito alla pressione dell’intimidazione, della propaganda e del ricatto jihadisti. Sono quelli che «si sarebbero potuti ritenere disponibili e che invece hanno preso tutt’altra decisione» (ivi, p. 153). I would prefer not to.

Riferimenti bibliografici
AA.VV., L’immagine carnefice, a cura di P. Amato, Cronopio, Napoli 2017.
R. Rechtman, Le vite ordinarie dei carnefici, Einaudi, Torino 2022.

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