Il cinema secondo Philippe Garrel è sguardo, movimento, desiderio. La cifra più espressamente politica di questa idea di cinema è l’ostinata volontà di continuare a girare (si potrebbe pensare) sempre lo stesso film, come forma di resistenza alla tentazione consumistica della produzione indiscriminata di immagini. C’è qualcosa persino di ammaliante nella semplicità delle immagini di Le sel des larmes, ultimo film del regista francese. Disarmante è il modo in cui l’assoluta assenza di orpelli diventa in Garrel la cifra attraverso cui la vita si concede, senza nessun didascalismo, all’occhio della macchina da presa. Le sel des larmes è per certi versi un film manifesto, che parla attraverso l’essenzialità dei gesti di cui si compone, delle inquadrature, dei toni di grigio, qui come in ogni altro film di Garrel.

Luc arriva a Parigi dalla provincia per sostenere l’esame di ammissione a una scuola per artigiani del legno. Precisamente arriva a Montreuil, nella periferia est di Parigi. Esce dalla stazione della metropolitana e a una fermata dell’autobus inizia un gioco di sguardi con una ragazza, Djemila, che attende l’autobus al lato opposto della strada. Luc si fa coraggio e le chiede indicazioni. I due si guardano, si scambiano qualche parola, poi salgono sullo stesso autobus. Prosegue in movimento, attraverso una sottile e intensa tensione, il legame del desiderio. La macchina da presa è prossima: li scruta, percepisce il desiderio, lo evoca, quasi lo provoca.

Scesi dall’autobus i due si separano, poi, dopo un attimo di esitazione, Luc rincorre la ragazza e le chiede di rivedersi, magari più tardi, alla fine della giornata di lavoro di lei. Sono come un incanto i giorni sospesi che i due ragazzi vivono prima del ritorno a casa troppo affrettato di Luc: le ore si susseguono fra lunghe passeggiate, abbracci e baci delicati. Poi sguardi, soprattutto sguardi; desiderio che insegue il desiderio. Djemila però si rifiuta di fare l’amore con Luc: permette in questa maniera al desiderio degli amanti di non consumarsi; eppure però forse lascia che esso prenda un’altra strada.

L’incanto e la rarefazione di questo primo incontro sono gli stessi elementi di cui vive il cinema di Garrel, ugualmente sospeso nel tempo, che potrebbe essere ancora, ora, quello degli anni della Nouvelle Vague oppure di film più recenti: da J’entendes plus la guitare (1991) a Les amantes réguliers (2005).

Un elemento più di altri, in Le sel des larmes, sottolinea la strana collocazione temporale del racconto: è la presenza totalmente sottodimensionata dei telefoni cellulari rispetto al normale uso che tutti oggi ne facciamo. Le relazioni che il film racconta (quella di Luc con tre donne diverse, in tre momenti diversi della narrazione, e ancora il rapporto complesso del ragazzo con il vecchio padre) resistono solo fino al momento in cui riescono a scartare dalla mediazione di uno strumento di comunicazione invasivo come il telefono cellulare, che qui ovviamente non vale di per sé (la posizione di Garrel non è certamente quella inutilmente anti-tecnologica e conservatrice), ma come forma di vita che esso è stato capace di imporre, a chiunque ne faccia uso.

I protagonisti del film si conoscono per strada, si incontrano per caso, scrivono lettere, si corteggiano come in un romanzo ottocentesco, si spostano da un posto ad un altro anche soltanto per parlarsi. Persino la breve storia d’amore fra Luc e Djemila sarebbe rimasta un bel ricordo parigino se Luc avesse continuato a non rispondere alle lettere d’amore della ragazza e soprattutto se non avesse risposto alla telefonata in cui lei gli chiedeva di rivederlo. Luc diserta l’appuntamento perché è già altrove, titubante, consegnato ad altre tensioni ed obblighi. Contemporaneamente, però, capisce che è finita anche la sua storia con Geneviève, la vecchia compagna del liceo, che rincontra per caso appena tornato da Parigi. L’ammissione alla scuola parigina è l’occasione per chiudere una storia durata forse anche troppo e naufragata con il concepimento di un figlio che Luc proprio non vuole e che non avrà mai.

Il desiderio si riaccende quando una sera, ritornato a Parigi, Luc incontra una nuova ragazza per la quale – così suggerisce la voce narrante che di tanto in tanto ci restituisce i pensieri e i sentimenti dei personaggi – sente immediatamente di provare qualcosa di molto diverso dalle due relazioni precedenti. In una delle sequenze più belle del film (omaggio a un’intera stagione di cinema europeo, da Godard a Bertolucci, al cui interno il cinema di Garrel si colloca a pieno titolo) i due nuovi amanti ballano, esprimendo con il movimento dei loro corpi, in una danza che li porta oltre persino le loro vite, l’intensità di un desiderio che la macchina da presa non solo registra, ma alimenta, in quanto parte integrante, attrice essa stessa, di una complessa trama di sguardi e di gesti che coinvolge allo stesso modo attori, regista e spettatori, in un triangolo amoroso in cui lo stesso Luc si trova molto presto coinvolto.

In fondo Le sel des larmes conferma una verità tanto semplice quanto radicale: che il cinema vive di forze e tensioni fra corpi, che anzi è il campo che quelle tensioni sono in grado di disegnare, cioè  propriamente desiderio. Ora il cinema resiste finché resistono quelle forze. Per questa ragione l’ultimo film di Garrel sembra prima di ogni altra cosa una sopravvivenza, perché parla ancora dell’amore per un cinema fatto di pochi elementi essenziali: corpi, movimenti, gesti, sguardi.

C’è forse qualcosa di nostalgico in Le sel des larmes, ma probabilmente la delicatezza che lo alimenta è in verità il luogo di una radicalità senza sconti. È il rapporto fra Luc e suo padre, in effetti, il nucleo centrale del film. È in questo rapporto complicato, unico e a suo modo bellissimo, che si consuma il vero tradimento di cui Luc è responsabile: non quello nei confronti di Djemila, abbandonata ancor prima che una vera storia d’amore potesse cominciare, e neppure quello nei confronti di Geneviève, lasciata sola con un bambino in arrivo, ma quello nei confronti di un padre che per tutta la vita ha sognato per il figlio un’esistenza e un lavoro migliori dei suoi. Un padre mai moralista, né giudicante che non condanna mai l’operato del figlio. Eppure qualcosa fra i due si rompe quando il padre comprende che nella relazione a tre che il figlio vive, Luc sta forse per la prima volta violando il proprio sentimento d’amore nei confronti di una donna diversa da tutte le altre. Dopo averlo perso per sempre, Luc deve riconoscere che probabilmente suo padre aveva ragione: ora può finalmente riconoscere i propri sentimenti, essere libero di amare e in questa maniera essere veramente fedele al proprio desiderio.

Se nel rapporto fra Luc e suo padre non è difficile rivedere quello fra Philippe Garrel e suo padre Maurice (forse anche quello con suo figlio Louis) è chiaro in che senso si può dire che esattamente qui si giocano le questioni più apertamente cinematografiche che il film solleva. È forse giunto il momento, anche per vecchio un enfant terrible come Philippe Garrel, di riconoscere che qualcosa del cinema dei padri va preservato, difeso perché la posta in gioco è ora, come mai, davvero molto alta. Ha a che fare con la sopravvivenza del cinema stesso, o più precisamente di un’idea di cinema che non smetta di raccontare il desiderio, di produrlo persino: un cinema che rifugga dalla deriva dell’immagine qualunque e scelga al contrario per sé un’immagine precisa, riconoscibile e per questo amabile. Le sel des larmes è una chiamata alle armi di tutto il grande cinema d’autore. Le lacrime puliscono gli occhi e lo sguardo.

Le sel des larmes. Regia: Philippe Garrel; sceneggiatura: Philippe Garrel, Jean-Claude Carrière, Arlette Langmann; fotografia: Renato Berta; montaggio: François Gédigier; musiche: Jean-Louis Aubert; interpreti: Logann Antuofermo, Oulaya Amamra, Louise Chevillotte, Souheila Yacoub, André Wilms, Martin Mesnier, Teddy Chawa, Aline Belibi; produzione: Rectangle Productions; origine: Francia e Svizzera; durata: 100’.

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