C’è una sostanziale differenza tra realizzare uno spettacolo teatrale e un film. La scena – è forse la più grande lezione del Novecento – è un luogo in cui è possibile inventare la vita o scartarla quasi interamente, costruire piani di realtà totalmente immaginati o inverosimili, senza che ciò debba passare per una rielaborazione del dato empirico del mondo. In un film la realtà può essere tutt’al più manipolata, ricostruita, ma non può essere elusa. La temporalità e la spazialità del cinema impongono un’adesione testimoniale alle forme di vita che l’immagine riflette, una loro ricodificazione in senso generico (tragedia, commedia, ecc.) o autoriale. In altre parole, il teatro inventa la realtà politicamente, mentre il cinema la riproduce eticamente ed esteticamente.

La migrazione transmediale di un oggetto teatrale in uno cinematografico è dunque un’operazione rischiosa, solo raramente riuscita, perché là dove il teatro consente di scartare integralmente da ciò che regola empiricamente il tempo e lo spazio del racconto, le sue catene causali, configurando tutta la sua carica espressiva sul corpo e sulla voce dell’attore, l’immagine può unicamente trasgredire, e mai negare, il suo dispositivo mimetico fondativo.

Il fallimento è dunque dietro l’angolo e Le sorelle Macaluso di Emma Dante, trasposizione cinematografica dell’omonimo spettacolo del 2014, ne è un caso esemplare. Rispetto allo spettacolo di sei anni fa, poco è cambiato in termini di trama: la morte improvvisa e violenta di una bambina palermitana durante un bagno a Mondello è il trauma attorno a cui ruotano le vite delle restanti sorelle. Il lavoro sulla messinscena invece, nel passaggio filmico, ha subito un cambiamento radicale: il buio vuoto della scena che circondava i personaggi dello spettacolo lascia spazio a un impianto realistico (la casa, la città, la spiaggia, ecc.) in cui l’azione trova forma nella presenza assoluta del personaggio nello spazio reale.

In termini puramente astratti, si tratterebbe quasi di una scelta condivisibile, se non fosse che questa resa realistica nel lavoro di Emma Dante non corrisponde in alcun modo ad un’adesione dell’azione ai tempi della realtà mimetica. Anni fa Polanski in Carnage aveva mostrato come l’unico modo per riconsegnare cinematograficamente il piano teatrale nell’immagine era sostituendo il lavoro sui corpi e sullo spazio con quello sul tempo. Solo cioè passando da un piano fondato sulla presenza attoriale e il suo movimento scenico ad una dialettica interna in cui il corpo si presta al movimento impersonale del mythos era possibile la resa cinematografica della temporalità teatrale. In altri termini, solo pensando l’immagine filmica come un dispositivo capace di rendere dinamica l’azione scenica è possibile riconsegnare “cinematograficamente” ciò che è stato pensato “teatralmente”.

Ne Le sorelle Macaluso, come e ancor più che in Via Castellana Bandiera, ciò che si compie è esattamente l’opposto. La regista palermitana concepisce infatti il cinema come momento di fissazione dell’azione scenica, come sua resa immobile. Ciò non solo la porta a non scartare dalla spazialità del teatro e dalle sue geometrie, dal corpo simulacro dell’attore e dalla sua centralità espressiva, ma, addirittura a raddoppiarli nell’immagine fino a renderli asfissianti. Il cinema è un mero strumento di amplificazione (visiva e sonora) della scena, un suo corollario realistico. Ecco dunque che il film diventa un collage caotico di sequenze musicali dilatate e autosufficienti (da Satie a Gianna Nannini), lunghi e incomprensibili momenti “performativi” (la danza lungo il fiume, l’asportazione del cuore dell’animale, il dolce ingozzato, ecc.) in cui il dato reale, o vagamente metaforico, deve emergere a tutti i costi.

Questo perché l’immagine affida al lavoro sul corpo e sullo spazio tutto il portato espressivo dell’intreccio, calcando la mano fino al parossismo, e privando il cinema di qualsiasi capacità di “raccontare”, ovvero di concepire il personaggio in primo luogo come parte di uno sviluppo temporale e impersonale. Il corpo diventa un puro significante, è cioè obbligato a dover significare, e a lui solo è affidato il compito di dare senso all’intero film. Senza lavorare veramente su una macchina solida alle spalle in grado di sorreggerlo, il personaggio è abbandonato alla sua solitudine performativa, alla sua gratuità e inconsistenza. Una solitudine che incombe come un macigno sullo spettatore, e che solo grandi attori e grandi registi sono stati capaci di sostenere. Non è questo il caso.

Le sorelle Macaluso. Regia: Emma Dante; sceneggiatura: Emma Dante, Elena Stancanelli, Giorgio Vasta; fotografia: Gherardo Gossi; montaggio: Benni Atria; interpreti: Viola Pusateri, Eleonora De Luca, Simona Malato, Susanna Piraino, Serena Barone, Maria Rosaria Alati, Anita Pomario, Donatella Finocchiaro, Ileana Rigano, Alissa Maria Orlando, Laura Giordani, Rosalba Bologna; produzione: Rosamont (Marica Stocchi, Giuseppe Battiston), Minimum Fax Media (Daniele Di Gennaro), Rai Cinema; origine: Italia; durata: 89′.

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