In un intervento del 1957, lo scrittore e sceneggiatore americano Rod Serling osservava come, rispetto alle recenti evoluzioni delle serie filmate che caratterizzeranno la prima Golden Age della televisione statunitense (1948-1965), i teledrammi ripresi e trasmessi in diretta fossero gli unici «momenti memorabili» prodotti dalla TV nei suoi primi anni di vita: «Se la televisione ha sviluppato delle tecniche originali», scrive Serling, «lo ha fatto grazie alla diretta». È proprio l’applicazione in TV della tecnica della diretta radiofonica, infatti, a rappresentare l’elemento primario di originalità del linguaggio televisivo delle origini rispetto a quello cinematografico. Oltre alla possibilità di documentare immediatamente il reale grazie all’utilizzo d’immagini in movimento, la diretta fornisce alla televisione l’opportunità di essere percepita dagli spettatori come medium narrativo che viene trasmesso e consumato, a distanza, nel momento stesso in cui viene prodotto.
Se fin dalle sue origini la televisione classica si mette, dunque, sulle tracce di uno specifico linguistico che ne possa legittimare un prestigio artistico e industriale, è proprio nel dialogo continuo con gli altri media (letteratura, teatro, radio, cinema) che essa trova un suo autonomo percorso di “ricerca”. Il genere del teledramma in diretta, ad esempio, entra facilmente in crisi di fronte alle prime sinergie tra network televisivi e alcuni soggetti produttivi ai margini dello studio system hollywoodiano. A metà degli anni cinquanta, poi, nasce il classic network system: produttori come David O. Selznick e major come la Warner iniziano a produrre serie filmate per i maggiori network americani. Sono gli anni in cui vengono mandate in onda due delle serie antologiche di maggior successo dell’età classica: Alfred Hitchcock Presents (1955-65, CBS) e The Twilight Zone (Ai confini della realtà, 1959-64, CBS). Attraverso il genere dell’antologia, la serialità televisiva inizia così il suo lento percorso di avvicinamento al medium cinematografico, riadattando professionalità, forme della narrazione e dinamiche di messa in scena del cinema classico alle esigenze dei broadcaster.
The Twilight Zone viene creata, prodotta e scritta interamente da Rod Serling, che aveva decretato, pochi anni prima, la superiorità dei prodotti seriali televisivi trasmessi in diretta. Si tratta di un paradosso, ma con l’opera di Serling la serialità televisiva della prima Golden Age sembra apparentemente distanziarsi dalle dinamiche narrative e dalle forme di messa in scena del reale proposte dalla televisione classica: il genere fantascientifico, gli innesti grotteschi, horror e fantasy, così come la voce narrante di Serling stesso, che introduce e commenta ogni episodio, contribuiscono a collocare The Twilight Zone in una dimensione immaginaria al di fuori del reale — ai confini della realtà, appunto.
Tuttavia, ad un attento sguardo complessivo la serie dimostra di esplorare soltanto raramente i temi classici della fantascienza, focalizzandosi piuttosto su storie, vicende e personaggi del tutto verosimili, spesso stravolti da switching endings, cortocircuiti provenienti da una realtà parallela, ignota e misteriosa. In ogni episodio, Serling accompagna lo spettatore in un percorso di transizione da una dimensione “reale” a una «regione dell’immaginazione», per usare le parole della tagline della sigla, «tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere». L’irruzione nel reale di eventi fantastici, presentati sempre in chiave allegorica e metaforica, serve, nelle intenzioni del creatore, a decretare un collegamento tra le vicende raccontate e la realtà sociale nel quale la serie viene prodotta.
In un’intervista a “Wired” del 2017, lo scrittore e sceneggiatore britannico Charlie Brooker osserva come Serling fosse «solito scrivere della questione del giorno in forma di metafora», in quanto «nessuno avrebbe mandato in onda una serie sul razzismo, ma messa in forma di analogia e sviluppata con gli alieni, invece, si poteva fare». A ben vedere, quello di Serling è lo stesso meccanismo narrativo riproposto da una serie antologica di successo creata recentemente da Brooker, Black Mirror (2011-, Channel 4/Netflix), dove gli innesti di tecnologia avanzata nelle realtà verosimili presentate dai singoli episodi servono a riflettere sulla sempre maggiore pervasività della tecnica nella vita umana contemporanea. In entrambi i casi, si tratta di serie antologiche che, pur distanziandosi sia dalle dinamiche di messa in scena della televisione classica, sia dalle moderne espressioni del realismo cinematografico, finiscono per ridiscutere indirettamente il reale tramite la forma narrativa dell’auto-riflessività.
Nel percorso di avvicinamento della serialità televisiva statunitense alla seconda Golden Age (gli anni ottanta e novanta), l’ibridazione tra il genere della serie (il telefilm classico) e quello del serial (la serialità continuativa della soap), e dunque le origini del fenomeno che Umberto Eco ha definito «serializzazione delle serie», ha costretto a un ripensamento del rapporto tra televisione e forme di racconto del reale. Non si tratta soltanto dell’introduzione di tecniche narrative, quali ad esempio il cliffhanger o il cold open, nei meccanismi della serialità classica, ma ancora una volta di un mutamento radicale dell’orizzonte industriale in cui vengono prodotte le serie televisive. Gli anni ottanta vedono, infatti, gli esiti di una regolamentazione più ferrea che limita l’oligopolio delle big three (NBC, CBS ed ABC), favorisce la nascita di nuovi network televisivi (FOX, tra tutti), e promuove una serie di produzioni indipendenti caratterizzate dall’innovazione del genere seriale, nonché dalla ricerca di un pubblico meno generalista e più targhettizzato. Una delle prime case di produzione che decide di investire nella qualità formale di serie destinate ai network televisivi è la MTM, che produce per la NBC la serie poliziesca Hill Street Blues (Hill Street giorno e notte, 1981-1987), creata da Steven Bochco e Michael Kozoll.
Uno dei primi esempi di serie serializzata, Hill Street Blues è caratterizzata dalla presenza di un numero maggiore di personaggi, decisamente più complessi e sfaccettati rispetto a quelli dei telefilm classici, ma soprattutto appartenenti a categorie sociali differenziate. Grazie alla struttura dei singoli episodi, costruita su linee narrative multiple, e al ritmo del racconto, che si fa più veloce e coinvolgente, il linguaggio televisivo assume connotazioni più realistiche rispetto al passato (spesso in virtù dell’adozione di tecniche di ripresa ispirate al genere documentario, come la macchina a mano, e a una fotografia meno “televisizzata”, ovvero più tendente alle forme cinematografiche). Come osserva Aldo Grasso, «è la prima volta che un telefilm punta alla più alta qualità narrativa attingendo energie dalla cronaca dei giornali, dalla letteratura, dal jazz, dal rock, dai fumetti». Un altro elemento di avvicinamento della serie al racconto del reale è dunque rappresentato dai contenuti: gli episodi di Hill Street Blues si occupano di fatti di cronaca “realmente” accaduti, messi in scena tramite il filtro di problemi di vita reale (il crimine, la violenza, la droga, l’alcolismo) e l’utilizzo di un linguaggio gergale, lo slang, che conferisce un’alta dose di realismo, o comunque di verosimiglianza alla realtà, al racconto televisivo.
Ancora una volta, l’influenza dei mutamenti dei canoni estetici e produttivi del cinema americano appaiono decisivi nell’evoluzione del racconto seriale televisivo: non si tratta soltanto dell’influsso della crisi industriale degli anni settanta e della nascita della New Hollywood (a cui la maggioranza delle serie poliziesche prodotte in questi anni si richiamano esplicitamente), ma della sempre maggiore partecipazione di autori e professionisti del cinema alle nuove pratiche seriali. Se questo, da un lato, conferisce prestigio e legittimazione culturale alle nuove serie televisive (il fenomeno che John T. Caldwell ha definito con il termine «televisualità»), dall’altro contribuisce a una sempre maggiore complessità delle forme di racconto del reale. Il caso di Twin Peaks (I segreti di Twin Peaks, 1990-1991, ABC) è il più eclatante, non solo per la partecipazione di un autore indiscutibilmente “cinematografico” come David Lynch a una produzione televisiva in qualità di co-creatore (nonché regista e sceneggiatore di alcuni episodi), ma soprattutto per il sempre maggiore utilizzo metalinguistico delle regole seriali, l’ibridazione tra generi televisivi classici, l’attenzione maniacale e fortemente “cinematografica” per gli aspetti visivi e formali. Ma è, più di tutto, con l’arrivo della terza Golden Age (gli anni 2000), e di quella che è stata etichettata come quality television, che il realismo irrompe definitivamente nelle produzioni seriali televisive.
L’avvio della stagione che Jason Mittell ha definito come «televisione complessa» rappresenta un cambiamento radicale nel modo in cui le serie televisive vengono ideate, prodotte, trasmesse e consumate. Oltre a superare la concezione di una televisione “di qualità”, etichetta che implica un giudizio di valore soggettivo sui singoli prodotti, pensare alle produzioni seriali come forme narrative complesse facilita l’inserimento di queste all’interno di un contesto produttivo e di ricezione profondamente mutato rispetto al passato. In questo percorso, il nuovo modello estetico e industriale proposto da alcuni cable network a cavallo tra anni novanta e duemila, in aperta contrapposizione a quello dei broadcaster tradizionali, rappresenta senz’altro un punto di svolta. Alcune produzioni HBO come Oz (1997-2003), The Sopranos (I Soprano, 1999-2007) e The Wire (2002-2008) propongono una riflessione sistematica sulla realtà sociale attraverso l’utilizzo di dettagli allegorici, questioni filosofiche, trame multiple e costruzione di vicende e personaggi complessi e sfaccettati, che si avvicinano sempre più alla dimensione narrativa del reale. Il principale referente di queste produzioni appare innanzitutto la tradizione realista del romanzo americano (Hemingway, Faulkner, Steinbeck), che si ibrida con le forme cinematografiche innovative provenienti dalla grande stagione della New Hollywood (Scorsese, Coppola, De Palma). L’assunzione di un modello di scrittura non procedurale, peraltro, permette una maggiore rilevanza dell’anthology plot: ogni episodio è pensato soprattutto come un mini-film, che si ramifica dal tronco centrale (running plot) permettendo una coralità del racconto e un’alternanza tematica delle storie dei protagonisti.
Nel caso dei Sopranos, oltre a una maggiore libertà creativa destinata allo showrunner (in questo caso David Chase), l’utilizzo di strade meno convenzionali nella produzione narrativa permette a un network come HBO di oltrepassare i limiti di ciò che è stato fino a quel momento rappresentabile o visibile in TV. In questo senso, si è parlato di un realismo televisivo che inizia deliberatamente a collimare con l’ambiguità della narrazione finzionale: da un lato, mostrare il volto umano di personaggi crudeli e volutamente offensivi significa disporre la loro essenza di uomini e donne “reali” all’interno di un mondo verosimile; dall’altro, sottolinearne il lato gretto, razzista, sessista e criminale permette allo spettatore di collocare le vicende in un contesto reale, e di potersene a sua volta distanziare o accostare. La rappresentazione cruda ed esplicita della violenza, così come l’attenzione drammaturgica ai riempitivi, agli eventi casuali, alle continue pause narrative e all’utilizzo frequente di inquadrature lunghe e tagli di montaggio differiti, eleva definitivamente l’asticella del rapporto tra televisione e realismo, influenzando decine di produzioni televisive nel decennio successivo. A titolo di esempio, il modello proposto in Italia da Sky, con la produzione di serie complesse come Romanzo criminale (2008-2010) e Gomorra (2014-), rappresenta una chiara linea di continuità con il modello HBO, non solo per le tematiche trattate, ma anche per l’adozione di una piena vocazione realista nelle modalità di messa in scena e rappresentazione della criminalità.
L’ingresso nel mondo della produzione seriale di Netflix, a partire dal 2013, introduce un’ulteriore complicazione del rapporto tra televisione e forme del reale. Il provider over-the-top più importante del momento, infatti, investe nella produzione di contenuti originali di finzione che, per larga parte, si distanziano dal modello di televisione realista proposto da HBO. Si tratta, tuttavia, di una produzione diversificata e variamente targhettizzata, sempre più orientata verso le logiche frammentate del narrowcasting: commedie, animazione, live-action, ma soprattutto contenuti drama con forti inflessioni mistery, sovrannaturali o di fantascienza (tra cui cinque serie tratte dall’universo Marvel). In questa massificazione di contenuti, tra racconti seriali e film di finzione, Netflix sembra aver voluto quasi interamente destinare al genere delle docu-serie ogni dialogo possibile con una dimensione del reale. Tra l’aprile 2015 e il maggio 2019, la società fondata da Reed Hastings ha aggiunto alla sua library ben 68 docu-serie originali, per la maggior parte orientate a una rilettura della storia recente degli Stati Uniti in chiave universale. Produzioni documentarie che, con la pretesa di essere a tutti i costi oggettive, finiscono per perdere qualsiasi incisività nella rappresentazione del reale. Il fenomeno è ancora in atto, ma viene da chiedersi quanto questa nuova modalità estetica e produttiva si stia semplicemente accompagnando ai modelli di televisione complessa affermatisi nel decennio precedente (due modelli, dunque, destinati a convivere), oppure quanto sia destinata a sovrapporsi e influenzare le forme di rappresentazione televisiva del reale di qui a venire (rimodulandole, ad esempio, verso una regione dell’immaginario ai confini della realtà televisiva).
Riferimenti bibliografici
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R. Serling, TV in the Can vs. TV in the Flesh, in «New York Time Magazine», 24 novembre 1957.