I primi ad apparire sono i volti di chi è rimasto, di chi guarda dall’alto la città di Bergamo, al delimitare di quelle mura che da sempre circondano un luogo diviso tra alto e basso, quasi predestinato a discendere nell’abisso e a risalire verso una levità insperata. Questo sembra volerci dire Stefano Savona sin dalle inquadrature iniziali, avvicinandosi ai dettagli dei visi maschili, femminili, giovani, anziani, senza riuscire ad abbandonarli, respirando con la cinepresa addosso a carni vive, pensierose, forse persino, finalmente, serene e sorridenti.

Raccontare la catastrofe del Covid nella prima città colpita (la più colpita in assoluto) in Italia produce un atto di testimonianza non soltanto coraggioso – Savona era lì già ai primi di marzo 2020, ed è rimasto nelle corsie d’ospedale, nelle case, per le strade, sino al lockdown e oltre – ma ad oggi ineguagliabile – queste immagini non sono minimamente paragonabili a quelle trasmesse finora dai media, anche soltanto perché sono tra le poche registrate “in diretta” e al contempo intimamente vicine a ciò che succedeva e non a servizio di un mero reportage informativo.

Difficile parlare di un oggetto che ci riconsegna in modo profondo e diretto, a distanza di esattamente tre anni, quanto accadeva nel nostro Paese in settimane che forse in molti stiamo cercando di rimuovere, forzandoci ad un superamento che assecondi legittimamente l’istinto di conservazione della nostra specie. Savona invece ci riporta lì, nel pieno della catastrofe, dopo aver riassemblato con pazienza ore di girato e (forse) essere riuscito ad elaborare una materia emotivamente così complessa per farne un film.

Un primo punto è proprio questo. Il regista in un certo senso si comporta con l’esplosione della pandemia nel nostro Paese come ha fatto per la primavera araba o per il conflitto israelo-palestinese. I suoi potrebbero essere definiti «documentari conviviali» (Gauthier 2009) della nostra epoca, in cui l’autore trascorre mesi con le comunità che sceglie di rappresentare raccogliendo un’enorme quantità di materiali da sottoporre in un secondo momento ad un lunghissimo processo di scrematura e rimontaggio. Si tratta difatti in tutti e tre i casi del racconto del racconto di chi, involontariamente, si è reso testimone di un passaggio chiave della storia mondiale (una rivoluzione, una guerra, una pandemia).

In Tahrir – Liberation Square (2011) la sua cinepresa si muoveva insieme ai corpi dei giovani rivoluzionari, cadendo assieme a loro, seguendo il desiderio di rappresentazione che caratterizzava quell’avvenimento nel momento stesso in cui accadeva, unendosi alle frotte di smartphone che tentavano un’autenticazione subitanea delle manifestazioni. Diversamente, ne La strada dei Samouni (2018) sceglieva di arrivare subito dopo la strage subíta sulla striscia di Gaza dalla piccola comunità dei Samouni, cercando di ricostruire attraverso la memoria dei sopravvissuti quanto accaduto nei mesi precedenti. Ne Le mura di Bergamo l’operazione raddoppia la sua complessità perseguendo entrambe le direzioni. Savona è lì mentre le persone cominciano a morire, ma rimane anche dopo, quando c’è bisogno di cominciare ad elaborare il trauma. Il documentario incrocia così continuamente due diverse temporalità, l’“ora” traumatico e il “poi” post-traumatico, scavando con il montaggio una strada che provi a ricucire in un unico lembo di carne l’evento catastrofico e il difficilissimo congedo da quest’ultimo.

Alle immagini delle ambulanze, degli anziani morti in corsia, delle ultime telefonate e delle ultime lettere lasciate a parenti da chi sapeva che non ce l’avrebbe fatta, dei centralinisti e dei portantini obbligati a rispondere a domande a cui non sapevano rispondere, degli abbracci e dei pianti degli infermieri, si uniscono così le parole di chi rimane solo in case (o persino palazzine) svuotate, agenti funebri che dopo aver accatastato e cremato cadaveri senza quasi distinguerne vite e nomi devono tornare lentamente ad una pratica umana della sepoltura e dell’accompagnamento oltre la vita, le riunioni di un gruppo di volontari (ognuno con un’esperienza diversa alle spalle in relazione al Covid) che cercano assieme il modo di parlare di cosa è veramente successo.

Sono in particolare questi ultimi momenti quelli in cui Savona si permette di scegliere i suoi “personaggi”, fili rossi di una storia difficile da gestire narrativamente perché impossibile è il distanziamento: iniziamo allora a conoscere meglio un’agente funebre, madre di due bambine, che si rimprovera di non aver fotografato abbastanza i cadaveri prima di chiuderli nelle bare per oggettivare agli occhi dei parenti qualcosa di non visto e dunque difficilmente realizzabile; il figlio di un medico di base che ha sacrificato la sua vita per curare i pazienti e ora il suo ritratto compare negli altarini delle famiglie colpite accanto a quelle di madri, padri, fratelli scomparsi; un’infermiera che ha più volte sentito il dovere di fare da tramite fisico per baci, carezze, sussurri che chi era fuori dagli ospedali non poteva dare di persona.

Ognuna di queste persone combatte soprattutto con una sensazione: quella di aver dovuto decidere al posto dei diretti interessati se il loro destino fosse quello di vivere o di morire. Tanto i medici quanto i parenti delle vittime hanno spesso dovuto stabilire inderogabilmente dove finiva la soglia di sopportazione, dove non c’era più nulla da fare, dove era necessario cedere il posto a qualcuno che aveva più speranze. Qualcuno di loro utilizza il termine “attore” per descrivere la surrealtà di quei momenti: essere messi a forza nei panni di qualcun altro, dover recitare una parte, prendersi una responsabilità non propria.

Viene da pensare che, in modo sempre più dilatato nel finale del film, Savona scelga di concentrarsi su questo tema perché sente che in qualche modo anche il suo ruolo di regista ha dovuto muoversi sul crinale di una scelta costantemente in bilico tra vita e morte. Catapultato nel mezzo di circostanze totalmente imprevedibili, il suo sguardo ha avuto in quelle settimane il compito di isolare alcuni istanti, selezionando cosa dovesse rimanere e cosa no, cosa sarebbe diventato immagine (vita) e cosa sarebbe sprofondato nel buio (morte).

È in questa luce che ha senso riflettere sugli unici momenti di allontanamento dal piano del contenuto verso un’azione della pura forma cinematografica. Due linee, una di natura più superficiale e una al contrario molto sottile, vengono scelte da Savona.

La prima riguarda la costruzione di un parallelismo iconografico tra le figure sacre (le processioni, le passioni, i Cristi in croce) affrescate sulle pareti delle chiese bergamasche e i volti e corpi dei martiri del virus. La seconda, più elaborata e di comprensione meno immediata, è costituita invece dall’interpolazione di materiali d’archivio – molti dei quali reperiti nell’Archivio Cinescatti di Bergamo (in alcune scene vediamo due delle archiviste, Giulia Castelletti e Alessandra Beltrame), poi selezionati e montati dalla cineasta Sara Fgaier.

Apparentemente i repertori, in bianco e nero, localizzabili in una Bergamo tra gli anni quaranta e i sessanta, ricompongono finzionalmente i ricordi felici degli anziani che con la pandemia hanno dovuto dire addio alla vita. Andando avanti nel film ci si rende conto tuttavia che esiste un tema ricorrente nei materiali: in tutti ad essere protagonista è il movimento – un uomo che si tuffa e riemerge dalla superficie, un bambino sull’altalena, ragazzi che corrono e fanno capriole, una forsennata battuta di caccia, e via dicendo. Come se alla pesantezza del corpo a rischio di vita, manovrato dai medici, martoriato dalla malattia, infragilito dalla Storia, servisse un controcanto che dialetticamente porti quell’infausto destino materiale a levitare miracolosamente in una momentanea assenza di gravità (un salto nel vuoto, il sussulto cardiaco durante una corsa, il sottosopra di un’acrobazia, l’apnea di un’immersione).

La domanda è: per chi è salvifica questa dialettica? In primo luogo, probabilmente, proprio per Stefano Savona, il quale, se nel caso de La strada dei Samouni usava le animazioni di Simone Massi per riempire un vuoto dei suoi personaggi, narratori bisognosi di vedere rappresentati i propri ricordi, ne Le mura di Bergamo utilizza gli archivi per sgravare (letteralmente) la forma del suo cinema, respirando tra gli archivi l’aria che, nelle sue immagini, i corpi non respirano più (e difatti ai primi archivi sovrappone gli affanni e i colpi di tosse dei malati). Solo in questo modo, forse, riesce ad alleggerire il peso della grande responsabilità che ha messo sulle sue spalle: nel filmare statico e inerme vita e morte per come inesorabilmente avvengono, è soltanto una certa dynamis resa intrinsecamente possibile da un’immagine (di per sé) movimento a redimere anche la sua umanità, messa alla prova come quella di tutti gli altri testimoni.

Riferimenti bibliografici
G. Gauthier, Storia e pratiche del documentario, Lindau, Torino 2009.

Le mura di Bergamo. Regia: Stefano Savona; sceneggiatura: Stefano Savona; fotografia: Stefano Savona; montaggio: Francesca Sofia Allegra; musiche: Giulia Tagliavia; produzione: ILBE – Iervolino & Lady Bacardi Entertainment, RAI Cinema; distribuzione: Fandango Distribuzione; origine: Italia; durata: 137′; anno: 2023.

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