il disprezzo

Uno dei Godard più grandi, senza dubbio dei più celebri. Uno dei capolavori dei cosiddetti anni Karina (1960-1967), gli anni in cui, in continuità con la cruciale esperienza della critica e dei primi corti, prende materialmente avvio, film dopo film, l’inaudita, incessante e tuttora ininterrotta meditazione godardiana sull’atto stesso del comporre, su tutti gli elementi in dotazione all’immagine filmica, sull’identità del cinema come sistema espressivo, sul suo costitutivo commercio col mondo.

Il film è Le mépris (1963), da Moravia – si fatica a dire Il disprezzo, in ragione della nota versione italiana che non era che il massacro di ciò che il regista aveva fatto –, che a distanza di cinquantaquattro anni dalla sua realizzazione, la Cineteca di Bologna, col progetto “Il Cinema Ritrovato al cinema”, ha portato nelle sale italiane, naturalmente nella sua versione originale sottotitolata, mai distribuita nei nostri cinema, restaurata da StudioCanal.

Opera già postuma della Nouvelle Vague, la cui esperienza come fenomeno collettivo si era appena conclusa, Le mépris sembrava portarne a compimento un sogno nemmeno tanto segreto e nemmeno tanto sorprendente, quello di realizzare un film coi mezzi di una grande produzione: e tuttavia i compensi destinati agli attori, allo stesso Godard, a Moravia, avevano asciugato sensibilmente il budget a disposizione – che pure restava più ricco di quello degli altri lavori godardiani del periodo – e il regista non dispose di fatto di mezzi troppo diversi, per girare il film, da quelli con cui allora lavorava (Bergala 2006).

Questa coproduzione internazionale firmata Godard è in ogni caso il suo film più narrativamente composto, più scritto, più conchiuso e lineare. Con esso Godard rileggeva Moravia via Rossellini – Viaggio in Italia (1954) è quasi un’ombra drammaturgica del film – e lo faceva comprimendo in modo marcatissimo l’estensione della vicenda narrata (da nove mesi circa a due giorni), modificando talora radicalmente i personaggi principali (Battista diventa l’americano Prokosch, i Molteni una coppia di francesi a Roma, il regista Rheingold nientemeno che Fritz Lang in persona, più la traduttrice dal nome stendhaliano-rosselliniano Vanini, derivata da una figura minore), strumenti di un poderoso multilinguismo; ripensando, attraverso la meditazione moraviana sull’Odissea, gli stessi concetti di classicità e modernità del cinema; orientando infine attorno al personaggio di Camille, e alla sua trasformazione interiore, l’intero asse immaginativo e configurativo del film. Quest’ultimo passaggio, decisivo, costruisce di fatto Le mépris come la storia degli ultimi due giorni di vita di una donna che muore due volte: moralmente (è l’insorgenza del disprezzo) e fisicamente (lo schianto, nel finale, dell’Alfa Spider di Prokosch).

Questo accentramento costruttivo su Camille è composto per il tramite di uno straordinario lavoro sul corpo di Bardot – e cioè sulla sua cieca bellezza, con cui Godard modella molto in profondità la durezza impenetrabile del personaggio – e sull’elemento del colore – la celebre gamma godardiana, rosso, bianco/giallo, blu. O più esattamente per il tramite della loro vertiginosa combinazione che, nell’amplissima sequenza dell’appartamento romano – quella in cui Camille, compreso il proprio sentimento per il marito, muore alla vita, impietrisce, diventa una statua affettiva –, trova il suo principio di determinazione.

Questo e molto più che questo abbiamo rivisto incontrando, nei suoi passaggi nelle nostre sale, il Mépris di Godard. Uscendo da una delle due proiezioni romane, mi sono domandato, molto semplicemente, se nel film ci fossero immagini attraverso le quali guardare questo nostro tempo audiovisivo del dopo – postmoderno, post-cinematografico, post-mediale – e a partire dalle quali interrogarlo, per qualche via, criticamente e produttivamente.

Ne ho individuate diverse e per motivi ogni volta differenti, ma qui farò riferimento a un solo momento del film e segnatamente alla sua celeberrima, vera e propria ouverture, successiva al segmento dei titoli di testa parlati e della frase pseudo-baziniana del mondo accordato ai nostri desideri. Tutti ricordano quella apertura: il corpo nudo di Bardot distesa di spalle sul letto, il dialogo con Piccoli che ne celebra ogni singola parte, la musica di Delerue, l’inquadratura intrisa di rosso, poi dominata dal bianco/giallo, poi interamente immersa nel blu. Una poderosa, sorprendente esposizione, all’attenzione e allo sguardo, di due elementi della rappresentazione, appunto il corpo statuario di Bardot e il colore. Lo spettatore non può non accorgersi dell’uno e dell’altro: il film non è nemmeno cominciato ed egli si misura con la brusca mostrazione della completa nudità di una diva in una folgorante scena policroma (Marie 1995) di rara intensità plastica e figurativa. È un’apertura perentoria, aggressiva, perfino violenta, come molto opportunamente ha notato Cerisuelo (2006). Una sorta di grande attrazione visuale posta in cima al discorso del film. La scena, come è noto, è stata imposta a Godard, assieme a un altro inserto (e a un’ulteriore sequenza, poi non entrata nel film), egualmente improntato alla nudità in combinazione con fondi monocromi situato nella macrosequenza dell’appartamento, in particolare dai suoi finanziatori americani.

Ma il regista, pur nel quadro di quello che si configura come uno scontro, può corrispondere in modo mirabile a quella imposizione: è esattamente sul corpo di Bardot e sul colore come istanza trasfigurante che egli ha fin lì lavorato per conseguire le strategie formative profonde mobilitate dal film. Dirà poi che in quell’apertura aveva mostrato Bardot e non ancora, propriamente, Camille. La prima è una statua vivente, la seconda una statua che muore (Venzi 2013). È il centro poietico e configurativo del film quello che, senza saperlo, gli americani gli chiedono di esporre. E Godard lo fa, aprendo Le mépris, per il tramite di una disposizione violenta delle forme, di una potente, ineludibile attrazione che reca in sé l’ampio processo di astrazione compositiva che l’intero film si incaricherà di mettere in atto. Insomma in questa violenza del comporre è l’unità di pensiero che muove il film che viene alla forma. L’attrazione – l’assunto è, ad evidenza, profondamente ejzenštejniano – è qui l’autentico punto di innesco di più ampi, più complessi, più articolati processi di astrazione.

Quante volte, nel cinema del nostro presente, ci misuriamo con qualcosa del genere? Quante volte nel nostro tempo audiovisivo così profondamente incentrato sull’attrazione, talora fondato sulla sua presenza, il neoformalismo che in larga parte lo sostanzia promuove in forme autenticamente violente, ma fuori dallo statuto ludico, combinatorio, autoreferenziale che spesso lo muove – in cui dietro un’attrazione non c’è che se stessa o al limite un’altra attrazione –, contenuti di pensiero che si facciano capaci di orientare, regolare, fondare il funzionamento complessivo di un intero film? Non molte, certo, ma il lettore si è certamente accorto che il mio ragionamento procede per via di provocazione.

Lui ed io sappiamo che la violenza delle immagini che ci circondano è davvero troppo spesso quella del rappresentato e quasi mai quella del rappresentare. Che invece ha abitato un tempo largo e cruciale del cinema e segnato molti dei suoi esiti più alti. E tuttavia se il cinema è stato violento e spesso crudele – muovendo dal regime della sensazione unicamente per giungere a quello, ben più complesso, del sentire (Montani 2007)  –, le sue immagini passate ci restano accanto per darci ancora da pensare, per parlarci al presente, per indicarci percorsi da riprendere o da ricominciare. Come fa questo Mépris che, su grande schermo, nello splendore del restauro, brilla ancora come una stella, sotto i nostri occhi.

Riferimenti bibliografici
A. Bergala, Godard au travail. Les années 60, Cahiers du cinéma, Paris 2006.
M. Cerisuelo, Le mépris, Les Éditions de la Transparence, Chatou 2006.
M. Marie, Le mépris, Nathan, Paris 1995.
P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007.
L. Venzi, Le mépris, il corpo e il colore, in «Studi Novecenteschi», n. 86, 2013.

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