Perché nel cinema francese più grande e libero, quello Nouvelle Vague, non c’è altro tema che l’amore? Perché a differenza della tradizione anglosassone, che ha posto il racconto dell’amore sotto il segno della morale (resistenza alle insidie, fin da Pamela, o la virtù premiata di Richardson) o della sua colpevole trasgressione nell’adulterio (come ne La lettera scarlatta di Hawthorne) e di quella italiana, che lo ha posto sotto il segno dell’istituzione (è un matrimonio al centro del più importante romanzo dell’Ottocento italiano: I promessi sposi), la tradizione francese, letteraria e cinematografica, ha raccontato l’amore al di là sia della morale che dell’istituzione: nessun valore che lo guidi se non il desiderio che attrae o respinge due amanti, nessuna cornice istituzionale o contrattuale che faccia dell’incontro amoroso una relazione.
L’amant d’un jour, l’ultimo film di Philippe Garrel presentato a Cannes, conferma tutto questo. L’incontro tra Gilles, professore universitario, la sua giovane allieva, Ariane, con cui convive, e la figlia di lui, Jeanne, che piomba a casa del padre dopo la rottura della relazione con il ragazzo, determina un triangolo singolare, che non arriva mai a comporsi.
L’attrazione tra Gilles e Ariane, l’amicizia tra le due ragazze, il rapporto tra padre e figlia tracciano i movimenti instabili di sentimenti, emozioni, idee sull’amore, la fedeltà, la sofferenza, il divertimento, la vita. Non c’è nessuna struttura che perimetra le relazioni: neanche quella “pedagogica” del professore e dell’allieva, del padre e della figlia. Forse solo quella amicale tra le due ragazze, che condividono segreti che nascondono all’uomo: il tentativo di suicidio di Jeanne, l’essere comparsa in un giornale porno per Ariane. Le ragazze si ritrovano, in una sequenza centrale del film, in una discoteca dove ballano, flirtano, sperimentando l’ebbrezza di tutti i contatti possibili senza legami. È il tentativo che fa Ariane di fare uscire Jeanne dal dolore e dal pianto, convincendola che c’è sempre la possibilità di ricominciare anche solo per curiosità della vita.
E l’attrazione tra Gilles e Ariane? Li vediamo ad inizio film nella “toilette dei professori” dell’università, in un rapporto dove nella verticalità dei corpi avvinti osserviamo il volto di lei cercare e giungere al piacere. Il film restituisce sempre gli amplessi nella frontalità e verticalità dei corpi, dunque senza posizione gerarchica e in uno spazio-tempo rubato.
E poi? Gilles teme di perdere Ariane, tant’è che dice: “Anche se ci tradiremo resteremo insieme”. Ma anche lei ha un moto di gelosia, quando, rientrando a casa, Gilles saluta prima la figlia. L’incontro tra Gilles e Ariane è segnato da un sentimento della fine che l’attraversa senza mai depositarsi. Costantemente rinnovato dagli “amanti di un giorno” di lei, dei quali lui non vuol sapere, fino a quando non la vede accoppiarsi. La schiaffeggerà, lei si giustificherà. Sia l’uno che l’altro gesto sono senza convinzione, perché in fondo “tu sei così” le dice Gilles. Che significa: il tuo desiderio transita tra contingenze incapaci di durare. È il “plus jamais” che Ariane scrive con il rossetto sullo specchio dopo aver passato la notte con un ragazzo. Esattamente l’opposto dell’“encore” (lacaniano) dell’amore. Per Ariane l’“ancora una volta” è con un altro e dunque è esattamente l’altra faccia del “mai più”: mai più con lo stesso, sempre con un altro.
Sono le molte possibilità di Ariane alle quali si contrappone la sola necessità di Jeanne: tornare con il suo ragazzo, perché senza di lui la vita non ha senso. E per fare questo provarle tutte, telefonate mute, inventate: una richiesta quasi ossessiva dell’altro.
Nella scissione speculare di Ariane e Jeanne si gioca il cuore del film. Tra il moltiplicarsi di una contingenza senza alcuna necessità (i molti di Ariane) e il ritornare ossessivo di una necessità senza contingenza (l’uno di Jeanne) viene eluso l’amore come contingenza che si fa necessità. Come incontro con l’altro che diviene la via d’accesso al rinnovamento del mondo: spazio tra-due, irriducibile al moltiplicarsi indifferente dell’altro come al suo ossessivo identificarsi.
Di fronte a ciò che accade, il sentimento di Gilles non è di rabbia né di incomprensione, ma al fondo di disincanto. Incapace di “dire l’amore”, è sospeso tra due segreti che sono altrettanti “vuoti”. Quello su cui si apre la finestra dalla quale Jeanne tenta di gettarsi: la passione suicida dell’Uno; e quello che vede Ariane nuda sulla copertina di una rivista porno: l’infinita intercambiabilità di tutto che giunge fino alla (s)vendita pornografica del corpo.
Ma è qui che il film e Garrel compiono il loro miracolo: quei personaggi non vengono giudicati, vengono amati. La loro incapacità d’amare diventa il contrassegno paradossale di un amore per la vita, forse l’unico possibile oggi, che si afferma nella forme estreme di una passione patologica o nel moltiplicarsi infinito del desiderio. E questo amore si traduce nello sguardo pittorico con cui la macchina da presa restituisce volti e corpi, nel modo in cui accompagna ansie, dubbi, incertezze dei personaggi con un bianco e nero (di Renato Berta) che restituisce tutta la grana dello spazio: tra i corpi, tra i corpi e l’ambiente, tra i corpi e le parole. E Garrel sta vicino ai personaggi ma è capace anche di prenderne le distanze per filmare lo spazio-tra che li separa unendoli.
È la prossimità-distante del film dai personaggi, sintetizzata dalla voce off femminile che in forma romanzesca traccia linee narrative e sentimenti, a inventare e filmare l’amore. Oltre i gesti e le parole dei personaggi, lo sguardo del film ci dice quello che accade tra i corpi, i dolori, i silenzi, i pianti, gli orgasmi, le illusioni infrante. Definisce oltre i personaggi una potenza d’amore che li attraversa senza riuscire ad esprimersi.
L’amore come possibilità non del tutto espressa dai personaggi, perché soffocata dal sentimento dominante della paura (di perdersi, di impegnarsi, di restare), e di cui si fanno carico la macchina da presa e lo sguardo del regista.
L’evento amoroso è ciò che non si deposita nelle situazioni ma le trascende. L’amore precipitato nelle situazioni è l’amore che diviene relazione e si istituzionalizza. Per raccontare l’amore istituzionalizzato ci sono i due grandi generi della commedia e del melodramma (fortemente presenti nella tradizione cinematografica americana ed italiana).
Per raccontare l’evento d’amore, cioè l’emergere contingente di un incontro tra-due senza che nessuna situazione né relazione lo possa stabilizzare, c’è solo il romanzesco (specificatamente francese).
Se nelle forme generiche commedico-melodrammatiche l’intreccio amoroso si subordina al punto di vista dell’autore, destinandosi ad un finale prevedibile (lieto fine o dramma), nelle forme romanzesche l’autore può prendere le distanze dai personaggi, permettendosi non solo un punto di vista distinto senza rinunciare alla prossimità, ma anche di non-decidere il finale. È quello che in definitiva accade in L’amant d’un jour: Ariane si dilegua, Jeanne si riconcilia con il ragazzo, e nel finale si solleva teneramente sulla punta dei piedi per abbracciarlo, mentre il padre, dopo averli salutati, si allontana. Ma questa ri-conciliazione risponde al sentimento di un nuovo inizio, o è il tornare insieme di due soggetti spaventati e sofferenti per essere rimasti soli? Nessuna parola o gesto esprime la forza di una fede rinnovata e dunque scioglie l’enigma.
Ed ecco allora che occorre tornare alla domanda di partenza, attualizzandola. Se il grande cinema francese ha raccontato l’amore (da Rohmer a Resnais, da Godard a Truffaut a Rivette, da Eustache a Garrel) è per le ragioni che Godard, riprendendo Bataille, individua in Eloge de l’amour: “Niente è più contrario all’immagine dell’essere amato che quella dello Stato la cui ragione si oppone al valore sovrano dell’amore”.
Se l’amore è innanzitutto ciò che si oppone al potere dello Stato, questo accade perché è capace di affermare una potenza di vita che sospende la situazione e per ciò stesso è capace di rinnovarla profondamente. Un incontro d’amore ha per questo una interna forza rivoluzionaria (che lo stesso Garrel racconta in Les amants réguliers).
Ma la potenza di vita aperta dall’evento d’amore sembra ora assorbita dalla più generale dinamica sociale, dalle infinite possibilità delle interazioni comunicative che regolano la vita quotidiana. E allora cosa resta dell’amore? Cosa può aprire l’amore se una potenza infinita ed indeterminata appartiene oramai (sia pur illusoriamente) alle dinamiche della vita sociale? Se i processi di individuazione si attuano ovunque tranne che negli eventi amorosi? In altre parole, a cosa si dovrebbe opporre l’amore se lo Stato e il suo potere sono in stato di liquidazione oramai da tempo? Se tutto sembra sopraffatto da una infinita ed onnipotente circolazione di corpi e discorsi?
L’amore in questi anni si è di volta in volta inscritto in un triplice registro che ne ha definito la sua negazione: in quello della prestazione, in primis sessuale fino al pornografico; in quello della cronaca nera (genere “amore criminale”); in quello, che ne ha ribaltato di trecentosessanta gradi il senso, che lo ha visto non più in opposizione allo Stato, ma come richiedente l’intervento dello Stato stesso, nella forma della “lotta per i diritti”, per una coniugalità estesa a tutto e a tutti ecc. Diviso tra pornografia, cronaca nera, lotta per i diritti, l’evento amoroso e la soggettivazione che implica si sono liquefatti e sono diventati irraccontabili.
Lo splendore misurato di L’amant d’un jour testimonia di tutto questo. Il cavalcare l’infinito insieme di possibilità (Ariane), il negarle (Jeanne), il disincanto davanti a tutto questo (Gilles), sintomi di una stessa difficoltà di amare, non permettono a nessuno di loro di accedere ad una parola d’amore, senza cui il sentimento non prende corpo. Di quella parola si farà carico Garrel, riconsegnandoci nella bellezza pittorica dei suoi “quadri”, liberi da ogni estetismo, quell’amore imbrigliato nelle situazioni e nei personaggi.
Le immagini dell’amore, della sua potenza, sono allora quelle che il film ci restituisce, liberando una potenza di espressione che vede e dice l’amore più dei suoi personaggi. Non si tratta di nessun banale rifugio nell’estetica come supplenza a qualcosa che nella prassi è irrealizzabile. Tutt’altro. L’arte, dando espressione a un sentimento, anticipa immaginativamente le condizioni per una sua nuova realizzazione.
È il più uno qui che conta, lo sguardo di Garrel, che aggiungendosi ai tre personaggi porta l’amore alla sua potenza propria: vedere in forma nuova il mondo, come accade nei primi piani del bel volto di Ariane, impossibili da sostenere per lo sguardo dello stesso Gilles.
Amare significa reinventare il mondo tra-due, e dunque liberare le energie sepolte nelle paure, negli smarrimenti di una contemporaneità che l’ha reso impossibile perché non utile al funzionamento dei dispositivi economici e sociali. È per questo dunque che l’amore è inseparabile dall’espressione e dall’arte, perché è esso stesso una forma d’arte, fragile e potente allo stesso modo.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Tra-Due. L’immaginazione cinematografica dell’evento amore, Pellegrini, Cosenza 2008.
R. Maria Salvatore, Traiettorie dello sguardo. Il cinema di Philippe Garrel, Il Poligrafo, Padova 2002.