Vestiti sparpagliati lungo il corridoio d’ingresso di una casa. Difficile descrivere diversamente la scena che ci troviamo davanti: poco – quasi nulla – infatti, si riesce a distinguere tra le forme “astratte” che gli oggetti hanno assunto nella loro caduta verso il pavimento. Un solo elemento di riconoscibilità emerge, tuttavia, tra gli abiti maldisposti: le scarpe. Uno stivale maschile poi, un po’ più spostate verso il fondo, delle eleganti scarpe da donna con il tacco alto. Impossibile non notarle: nel panneggio scomposto che riempie l’immagine fotografica, lì dove la forma umana si è allontanata, la scarpa è l’unico elemento che conserva l’aspetto di una parte del corpo – «C’est l’accessoire le plus humain» (Ernaux, Marie 2005, p. 46). Ma soprattutto, quelle scarpe sono l’unico indizio al quale possiamo aggrappare il nostro sguardo: perse all’interno di una composizione informe, quelle scarpe – proiezione di corpi assenti – ci dicono la storia di un “passaggio”, ovvero sono la traccia di ciò che rimane di un evento che si è consumato fuori campo. Ma di quale evento si tratta? 

La fotografia appena descritta è stata realizzata il 6 marzo 2003 da Annie Ernaux. A svelare la maternità dello scatto è Marc Marie, a quei tempi compagno della scrittrice e che condivide con lei il peculiare progetto di conservare l’immagine «del paesaggio devastato dopo l’amore» (ivi, p. 25). Eccolo, infatti, l’evento rimasto fino a questo momento fuori campo: quello che stiamo osservando, infatti, è ciò che resta di una notte di passione, residuo materiale e visibile della jouissance delle ore precedenti. Distruggere la composizione che gli amanti si trovano di fronte il mattino successivo è considerato dai due come un atto di profanazione. Da qui l’idea: provare a preservare la scena che si spalanca davanti ai loro occhi attraverso l’atto fotografico. Cogliere «l’irrealtà del sesso nella realtà delle tracce» (ivi, p. 13). Atto e Potenza. Passaggio e paesaggio.

L’usage de la photo (Gallimard, non ancora tradotto in italiano) raccoglie quattordici delle circa quaranta fotografie in formato analogico che Annie Ernaux e Marc Marie realizzano durante la loro relazione, e che coprono un arco di tempo che va dal 6 marzo 2003 (data dello scatto posto qui come overture) al 7 gennaio 2004. Ognuna delle fotografie è accompagnata dall’alternanza dei testi che i due amanti decidono di scrivere mentre il loro archivio di immagini inizia a crescere. Una scrittura “fuori tempo”, potremmo dire, che Ernaux e Marie producono a distanza di giorni dallo scatto, a volte mesi, seguendo una regola che i due si impongono di rispettare: non mostrare all’altro quanto scritto se non alla fine dell’impresa. 

Tra le fotografie e la scrittura c’è dunque uno scarto, uno sfalsamento che tuttavia non è solo temporale. Se è vero che i testi descrivono ciò che troviamo dentro l’immagine, allo stesso tempo la parola prova a risarcire l’occhio aprendo a ciò che è o-sceno, letteralmente al fuori scena dello scatto fotografico. E ancora, se la fotografia immobilizza “ciò che è stato”, la scrittura diventa il mezzo attraverso cui riportare in vita la memoria che giace sepolta tra le pieghe degli abiti, nelle lenzuola di un letto disfatto, tra i fogli gettati a terra durante l’impeto della passione. Ecco che, allora, l’incontro/scontro tra la fotografia e la parola diventa ciò che permette ai due di accompagnarci in una intimità che non è fatta di ciò che accade nel corso dei loro incontri amorosi. Nulla dei loro corpi entrerà a far parte dell’immagine fotografica:  «Rien de nos corps sur le photos. Rien de l’amour que nous avons fait. La scène invisible. La douleur de la scene invisible. La douleur de la photo» (ivi, p. 110).

J’aimerais vous emmener à Venise

Annie Ernaux e Marc Marie si incontrano dopo una lunga corrispondenza durata circa due anni. Uno scambio di lettere non regolare fatto di lunghi messaggi fino a quando, dalla carta intestata dell’Hotel Amigo di Bruxelles, lui le scrive che ha da poco perso la madre. Lei rimane colpita da una strana coincidenza: la scrittrice aveva vissuto in quell’albergo poco prima che la madre di lei morisse. Lui è molto più giovane, ma i due hanno Bruxelles in comune, e in quello stesso albergo faranno ritorno insieme il 10 marzo 2003, sei settimane dopo il loro primo incontro. Prima di lasciare la stanza Marc Marie scatta una foto: in primo piano il tavolino con i resti della colazione, poi il letto ancora disfatto, una blouse di seta di lei e una camicia che appartiene all’uomo. E ancora: la scrivania e lo specchio, la finestra appena aperta e le rose che lui ha regalato a lei qualche giorno prima. 

Nel descrivere ciò che ricordano degli scatti, i due lasciano che a farsi spazio siano soprattutto altri ricordi. In questo senso, L’usage de la photo è certo una scrittura del corpo «traslato», come scrive Riccardo Venturi, in cui la presenza del corpo è sostituita dalla descrizione degli abiti che ne conservano la traccia biologiche. Paradosso della fotografia: corpo esposto nella sua assenza. Ugualmente, l’unione di foto e testo costruisce un dispositivo che permette ai due autori di muoversi nel tempo – passato, presente – e nello spazio – fuori e dentro le mura domestiche – slabbrando i margini dell’evidenza fotografica. È la scrittura, insomma a riattivare immagini altrimenti inattuali, letteralmente fermi-immagine – e del resto, non è proprio di ogni fotografia l’essere sempre al passato?

Gli scatti diventano, in questo senso, il contrappunto per qualcosa che accade fuori dalla cucina, fuori dalla stanza da letto, dallo studio, dalle camere d’albergo, a Venezia, a Bruxelles, a Parigi e che, sebbene rimanga sullo sfondo, non può mai essere slegato da ciò che accade dentro il micro-universo che i due amanti si sono costruiti. Così come accadrà per Les Années (Gallimard 2008, tradotto in italiano da L’orma), anche in questo caso la forma del libro emerge dall’immersione nelle immagini (foto e sequenze di filmati) che diventano la cassa di risonanza attraverso cui la scrittrice Premio Nobel può convocare la Storia. Se tuttavia ne Les Années Annie Ernaux utilizza le fotografie (mai mostrate ma solo descritte) per «ritrovarci il mondo» in una sorta di autobiografia impersonale, ne L’usage de la photo assistiamo ad un ri-piegamento verso l’interno: dalla foto al mondo, e ritorno. Ri-piegare sulle immagini.

Ed è proprio in questo ulteriore avvitamento di scrittura e immagine che la foto svela il segreto più inquietante: quegli abiti dismessi, privi di corpi e vita – e del resto, Giuliana Bruno suggerisce che l’abito vuoto è uno spettro – sono il presagio di una scomparsa ancor più radicale, di una assenza ben più definitiva. Nell’ottobre del 2002, Annie Ernaux scopre di avere un cancro al seno. Lo dirà a Marc Marie la sera del loro primo incontro, dopo avergli rivelato che le piacerebbe molto portarlo a Venezia ma che non può perché la settimana seguente deve sottoporsi a un intervento all’Istitute Curie. Lui le starà accanto per tutto il periodo in cui lei rimarrà in ospedale. Lei aspetterà molto tempo prima di farsi vedere senza parrucca. 

Nei dettagli degli abiti si cela dunque una caduta ugualmente sensuale e mortifera – e non è un caso che la stessa Ernaux faccia riferimento al sudario svuotato dal corpo di Cristo. Non solo corpo desiderante, insomma, ma anche corpo malato, medicalizzato, corpo monitorato, indagato, scrutato. Il catetere, la parrucca, le cicatrici, la pelle glabra, liscia – lei sarà per lui la sua «donna-sirena». Ed eccolo allora, il «dolore della foto, il dolore della scena invisibile»: gli abiti dismessi hanno abbandonato corpi ugualmente desideranti e sofferenti. Amore e morte. E così, le immagini fotografiche non sono solo il ricordo della jouissance ma sono il richiamo ad uno svelamento radicale, letteralmente terminale. Ad una svestizione ultima

La relazione tra Annie Ernaux e Marc Marie finisce qualche tempo dopo, ma prima della loro separazione lei guarisce dal cancro al seno. Rimane il catetere, che la donna tiene come ricordo, la parrucca e, appunto le foto che adesso possiamo guardare anche noi. Foto di una lotta, di un amore, di un passaggio. Di tracce. Fotografiche, certo, ma anche biologiche, materiali, corporee. E forse è davvero questo «l’usage de la photo»: salvare ciò che è destinato alla scomparsa. «Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo più». 

Riferimenti bibliografici:
G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, Johan e Levi, Milano 2015.
Id., Les Annèes, Gallimard, Parigi 2008.

Annie Ernaux, Marc Marie, L’usage de la photo, Gallimard, Parigi 2005.

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