Che la parola sia lo spazio privilegiato della risoluzione e dell’appianamento di ogni possibile conflitto è una canzone da organetto tipicamente liberista, un portato del senso comune sociale che ci circonda da ogni lato e in cui è impossibile non riconoscere un vero e proprio ordine del discorso, quasi un dogma da accettare ciecamente, almeno per chi si sia formato dopo la fine degli anni Settanta. Il primo, meritorio, impatto che la lettura de Le fondamenta retoriche della società. Morte e resurrezione di una teoria dell’ideologia (Mimesis, Milano-Udine 2017, pp. 257) di Ernesto Laclau produce, è proprio quello di cancellare una simile illusione ed elevare la parola a ben altra dignità: quella di luogo privilegiato del conflitto. Tale operazione non si limita tuttavia a proporre una modalità politica di frequentare il linguaggio, e nemmeno avanza delle teorie performative applicate al politico.
Scopo dichiarato di Laclau è, invece, quello di fondare un’ontologia politica, che, quindi, valga generalmente in quanto ontologia e, al contempo, sia in grado di generare e sostenere una valenza eminentemente politica. Continuando a far circolare i discorsi della linguistica assieme alle acquisizioni della psicoanalisi lacaniana, Laclau getta le basi per una vera e propria struttura in grado di fornire le chiavi di lettura più adeguate per la comprensione e l’azione politica. È, quindi, in senso “strutturalista” che la parola riprende il centro del palcoscenico, non solo come necessario oggetto strategico, ma soprattutto come paradigma in grado di fornire le regole di costruzione e possibilità di quelle medesime strategie. Nello specifico, si potrebbe dire che l’incedere argomentativo di Laclau al riguardo sia duplice, esibendo egli due prospettive: una macro-discorsiva e l’altra micro-discorsiva. Con il primo saggio del libro (che dà il sottotitolo all’intera opera) si cerca di rendere conto delle problematiche intrinseche alle grandi formazioni discorsive, a ciò che in ambito più tradizionale viene chiamato “ideologia”.
In sintesi Laclau mostra l’impossibilità auto-generativa di un’ideologia, di un sistema di pensiero, che sempre necessita di un punto extra-discorsivo per potersi fondare. Eppure un’ideologia, pretendendosi per natura universale, non può ammettere un fuori, un esterno che non sia in grado di riassumere. Questo porta a due conseguenze di notevole portata: da un lato un’ideologia, una formazione discorsiva, non potrà mai totalizzare la realtà, lasciandosi sempre sfuggire qualcosa in grado di dare adito a nuove formazioni discorsive; dall’altro, ogni discorso si può strutturare solo a partire da un fondamento che è un «oggetto impossibile e necessario» al contempo, qualcosa che fa parte dell’ideologia ma soltanto in quanto assente. La prima metà di queste implicazioni sembra portare ad un’esplosione relativistica dei punti di vista, qualcosa di molto simile all’operazione compiuta da Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna, là dove si mostra l’identità formale delle «grandi narrazioni», che vengono così sequestrate in blocco. Eppure Laclau quasi certamente non avrebbe accettato facilmente una simile resa, ed è proprio nella comprensione del funzionamento di quell’«oggetto impossibile e necessario» che si concentra tutta la posta per poter portare, appunto, anche alla resurrezione della teoria dell’ideologia. È qui che prende il sopravvento l’aspetto micro-discorsivo.
Proprio in questa direzione diventa centrale la linguistica strutturalista, e segnatamente il rapporto significante-significato. L’orizzonte di senso che può emergere soltanto dalla reciproca e puntuale articolazione di questi due momenti espressivi viene anche continuamente minacciato dalla tendenza totalitaria della catena significante. Essa infatti, nel momento in cui si incarna in una serie di atti di parola, ha bisogno di puntellarsi su termini che Lacan chiamerebbe «significanti padroni», che Lévi-Strauss chiamava «significanti fluttuanti» e che Laclau ribattezza «significanti vuoti». Quest’ultimo sembra un termine particolarmente adeguato in quanto serve a concettualizzare una parola senza referente, ma che, proprio in virtù di questo, può potenzialmente designarli tutti. Di fatto, una casella vuota attorno a cui si organizza la struttura del discorso, il quale non può renderne conto in modo rappresentativo, ma solamente negli effetti che essa produce al suo interno.
Nell’applicare tale operazione all’ambito politico ci si confronta necessariamente con degli assetti sociali e delle forze reali che Laclau riesce magistralmente a inscrivere nel processo. Le possibili rivendicazioni sociali, sempre concrete e contingenti, possono cominciare a entrare in una «catena equivalenziale» che magari indebolisce la loro incidenza precisa, ma consente loro di apparire in un unico spazio di rappresentazione, inscrivendosi all’interno di un singolo significante vuoto che da quel momento cominciano a riempire. Ad esempio, “giustizia” è un termine che non può facilmente essere esplicitato, ma che, dentro uno specifico discorso, può stare per molte cose: dalla richiesta di cessazione di arresti arbitrari a quella della garanzia di un salario minimo. “Giustizia” diventa quindi quell’«oggetto necessario e impossibile» che sottraendosi alla rappresentazione, permette di legittimare simili richieste anche di fronte allo stesso popolo che le esprime e che a sua volta potrà riconoscersi tale solo evocando al di sopra di sé la «pienezza assente della comunità», in questo esempio la “giustizia”.
È così che ha luogo il processo di «egemonia» che Laclau riprende da Antonio Gramsci, ovvero la possibilità per una parola di rappresentare una catena di rivendicazioni, e per una specifica realtà sociale di assumere su di sé la voce in rivolta di tutto un popolo. L’egemonia, essendo per costituzione antagonista rispetto alla sedimentazione sociale in uno status quo, è necessariamente anche ciò che consente di far trapassare l’universalità dell’ideologia nel processo di universalizzazione di ideologie molteplici in conflitto tra loro. In questo senso è il concetto di egemonia a reggere l’essenza del politico in quanto tale.
Il difficile gioco di specchi tra parole e cose che emerge da quest’ordine di riflessione si giustifica con l’attenzione di Laclau a non risolvere l’ambito del politico nel linguistico e nel simbolico e, al contempo, a non sottovalutare gli aspetti di costruzione linguistica e simbolica all’interno della tessitura politica. Per dirla con il Deleuze di Logica del senso «il significante è innanzi tutto l’evento come attributo logico ideale di uno stato di cose, il significato invece è lo stato di cose con le sue qualità e relazioni reali». Questo sta a significare che ci si trova di fronte ad una sorta di co-costituzione, là dove l’esistenza di forze in gioco reali ed effettive permette l’innescarsi del processo egemonico, intanto che quest’ultimo offre a quelle forze l’occasione di manifestarsi e rappresentarsi. Ognuno dei due aspetti genera le condizioni di possibilità dell’altro. Ognuno dei due offre all’altro la capacità di metamorfosi.
Diventa chiaro, quindi, che la logica che sorregge il funzionamento del significante vuoto è quella retorica. In particolare, il susseguirsi delle rivendicazioni presenta il tratto della contiguità differenziale tipicamente metonimico, mentre i punti di condensazione che permettono reciprocamente l’incarnazione del significante e la rappresentazione della catena, funzionano in senso metaforico. È per Laclau di fondamentale importanza che le due istanze della metafora e della metonimia si diano costantemente il cambio e si articolino l’una con l’altra, perché soltanto così si può mantenere in funzione il processo antagonistico dell’egemonia, vale a dire la costruzione di spazi rappresentativi eterogenei a quelli dati, vale a dire, in ultima analisi, il politico. Se questa articolazione venisse a cadere uno dei due aspetti prenderebbe il sopravvento e ci si troverebbe di fronte a una metonimia formale, oppure a una metafora assoluta. La prima è ben descritta dalla tecnocrazia burocratica hegeliana o dallo Stato senza classi preconizzato da Marx: si tratta di una forma di universale in cui le domande vengono gestite e soddisfatte una alla volta e nelle reciproche differenze, in cui cade cioè la possibilità anche solo di trasformare delle domande in rivendicazioni, e di radunarle sotto un unico significante vuoto. In un universale compiuto viene abolita la tensione universalizzante che caratterizza l’egemonia, la quale non può più trovare un terreno di manifestazione. La metafora assoluta, di senso uguale e contrario, implica la capacità di un solo significante di condensare tutti gli altri, di una sola entità di assumersi ogni domanda. Si tratta della forma dispotica di uno stato totalitario. Ovvero di un funzionamento paranoide che annette ogni istanza sociale e la fa convergere verso un centro occupato dal corpo del capo. Anche in questo caso ci si troverebbe in presenza di un universale, benché non più gestionale e in qualche modo “risolto”, che, se si presentasse nella sua purezza, porterebbe ad una nuova abolizione del politico.
Esistono allora due ordini di motivazioni per cui Laclau non può permettersi di prendere effettivamente in considerazione questi casi estremi appena illustrati, se non come finzioni teoriche. Il primo motivo sorge naturalmente dall’analisi dei fatti: si è provato, qui sopra, ad esibire due figure in grado di rendere conto di cosa potrebbe significare una disarticolazione tra processo metonimico e metaforico, ma, di nuovo, si tratta di tenere presente gli assetti di forze reali, senza che il linguaggio li sopravanzi. Questi ultimi ci mostrano chiaramente che non è mai data la possibilità di una pacificazione effettiva e totale di una società che, compiuto il momento politico, si ritrovi piena e riposante in sé stessa. Tensioni e problemi la agitano, e sempre la agiteranno, da ogni lato. Con questo diviene necessario e urgente fare i conti. Il secondo è invece un motivo di principio: dopo aver strutturato un’ontologia in grado di fondare l’essenza del politico, Laclau deve mostrare i pericoli che tale essenza minacciano, e sventarli. Perché, come si diceva all’inizio, l’aspetto politico e quello ontologico si reggono a vicenda, si rendono possibili a vicenda e insieme stanno o cadono.
L’ontologia, la politica di Laclau, benché possa mostrare volti e contenuti differenti, di fatto destina tutti i suoi agenti ad un compito che, per quanto fatto di buchi e cesure, si presenta incapace di concludere, se non per ricominciare ogni volta da capo. Un compito infinito dunque, che ci richiederà sempre ogni volta di prendere posizione per la rifondazione permanente di un luogo in cui poter cercare le nostre parole.