Le canzoni italiane utilizzate da Nanni Moretti nei suoi film, se messe in fila, appaiono come una sorta di coerente concept album visivo, che non sollecita la compilation soundtrack come pratica puramente compilativa e antologica, ma come strumento autoriale e concettuale, piegandola ad elemento di configurazione del proprio riconoscibilissimo stile. Eppure, mancavano dal 2006 quelle canzoni italiane che il popolo morettiano amava così tanto, e che si erano configurate secondo modalità di messa in scena tanto atipiche, quanto specifiche, come il canto-contro canto, il passaggio dal regime onirico a quello di realtà e le performance idiosincratiche.
Ne Il sol dell’avvenire ritornano tutti questi elementi, contestualizzati all’interno di un’iper-morettismo di (prima) maniera che ha raccolto ampi consensi, ma che non ha convinto proprio tutti anche per via dell’eccessiva ricorsività intertestuale e di un eccessivo auto-citazionismo, ritenuto autocelebrativo e fine a sé stesso. Vorrei invece provare a dimostrare come il nuovo ricorso compilativo-antologico alla canzone italiana, sollecitata come dispositivo sia formale che culturale (avvenuto attraverso il numero di brani più alto – ben quattro – e con il minutaggio maggiore rispetto agli altri quattordici lungometraggi di finzione), possa rappresentare un significativo passo in avanti del cinema di Moretti, segnando uno sguardo retrospettivo sino ad ora inedito, che configura a livello processuale la pellicola come un film di un settantenne che riflette su sé stesso e sulle sue relazioni: con il suo passato, con la sua notorietà, con la storia, con il resto del mondo, con le nuove generazioni e con il passare del tempo.
Le quattro canzoni italiane – Sono solo parole (Noemi, 2012), Lontano, lontano (L. Tenco, 1966), La canzone dell’amore perduto (F. De André, 1966) e Voglio vederti danzare (F. Battiato, 1982) – sono impiegate attraverso modalità di messa in scena differenti, che realizzano una geometria simmetrica all’interno della pellicola segnando alcune cesure che sembrano agire non solo sulla diegesi, ma rispecchiando anche il percorso cinematografico di Moretti. Il regista gioca con queste canzoni, muovendole a suo piacimento tra i differenti piani del racconto e gli ordini di immagine, usandole come tramite formale per saltare da un regime all’altro: soltanto la prima e la seconda metà dell’ultima, infatti, appartengono alla storia principale – quella del regista Giovanni che sta girando un film sul PC romano nel ’56, durante l’invasione sovietica dell’Ungheria –, mentre le due centrali e la prima metà della quarta appartengono ad uno dei due “film nel film”, un film solo sognato nella mente del regista (inscenato attraverso una serie di proiezioni oniriche inserite senza soluzione di continuità nella diegesi), dedicato ai quarant’anni di una longeva coppia di cinquantenni che si ama, ritmato da canzoni italiane (mentre nessuna canzone italiana è significativamente compresa nel primo “film nel film”).
Il salto tra i differenti piani del racconto è dato dal primo e dall’ultimo brano, che tra loro riquadrano in modo geometrico, circoscrivendole, le lunghe sequenze della crisi del protagonista, che inizialmente appare dovuta solo a questioni professionali (le difficoltà produttive che sta passando con il suo nuovo film, che non gli consentono di realizzarlo come vorrebbe), ma poi diventa via via più profonda, toccando prima elementi strettamente personali e relazionali (la moglie che lo lascia, la figlia che si fidanza con uomo maturo), poi elementi più etici (la rappresentazione dozzinale della violenza sullo schermo, l’incapacità di far conciliare amore e politica, la ricerca della forza eversiva del medium cinematografico, la scelta di non piegarsi a logiche distributive mettendo da parte le istanze artistiche). La crisi è aperta da un brano cantato, ancora una volta in macchina, da (Giov)[N]anni al volante (la cosiddetta canzone-camera car), ripreso però non solo frontalmente, ma anche di lato; la performance, che si apre con un verso che sottolinea un’iniziale presa di coscienza del suo stato di crisi, per ora solo prefigurato («Cercare un equilibrio che svanisce ogni volta che parliamo» inizia a cantare Moretti, mentre la traccia di Noemi in sottofondo, alla radio, è quasi impercettibile, e sembra partire dal nulla), appare originalmente come l’espressione di un desiderio specifico del protagonista, che cerca proprio una canzone che gli permetta di caricarsi in vista delle riprese (e quella di Noemi sembra fare al fatto suo) e superare l’impasse.
Per poter realizzare una carica efficace – non dissimile a quella dell’ E ti vengo a cercare che stimola i pallanuotisti in Palombella rossa –, il brano deve consentire un travalicamento multiplo: sintattico, tra gli ordini di immagine; fisico, tra spazi diversi e chiusi (la macchina e le mura del set), che vengono “aperti” e spaccati proprio dalle canzoni; interiore, tra i tanti io distinti e separati tra loro: Silvio (Silvio Orlando), che risponde a pappagallo alle esigenze del regista sulla scena, ma il cui personaggio (Ennio) è in crisi perché non riesce ad opporsi al partito per fare l’azione giusta; Barbora (Barbora Bobulova), che cerca a tutti i costi di trasformare un film politico in un film d’amore contro la volontà di Giovanni; Paola (Margherita Buy), che non ha il coraggio di lasciare Giovanni, e per questo ricorre a uno psicologo che però appare disinteressato a lei, e via via tutti gli altri. Da canzone-camera car il brano diventa gradatamente una performance corale che travalica spazi, corpi e identità, e si configura come un potenziale momento di comunione in cui le discrasie interiori si colmano solo superficialmente: gli sguardi degli attori sono infatti persi, fissi nel vuoto, ciascuno rivolto verso una direzione differente; Giovanni poi, pur riuscendo a caricarsi, nonostante abbia dato lui stesso il via al canto non riesce più a prendervi parte. Difatti mentre il cast intona il ritornello, dopo aver lanciato l’azione, procede da solo verso la macchina da presa, mentre gli attori tornano sul proscenio ognuno al suo posto, come maschere che pirandellianamente riprendono a recitare da automi la loro parte. La canzone non riesce allora a colmare la crisi, anzi, ne disvela la molteplicità policentrica e la sua moltiplicazione in tante crisi, tutte sussunte nello smarrimento dell’io del protagonista.
Per poter tornare in armonia con il cast e con il mondo servirà un’azione differente, nuova (un po’ come il nuovo linguaggio di Palombella rossa), e dunque non più canora; un’azione che sarà avviata sempre da Giovanni in prima persona – vero motore narrativo e movente di tutto Il sol dell’avvenire –, ancora individuale, ma non più individualista (a differenza dell’individualismo della visione scaramantica di Lola o dei palleggi solitari sul set), che prende forma prima nella sua mente, grazie alla configurazione onirico-psicologica del finale del suo film sognato (la famiglia felice che fa un pic-nic insieme ai figli in mezzo ad un prato), e poi si concretizza nel sorriso – il primo reale, perché il precedente era solo mentale (accompagnando il bacio dei due ragazzi sulle note di Lontano, lontano) – che sorge spontaneo sulle sue labbra, e nel librarsi libero, ma ordinato (e coordinato), del suo corpo a mo’ dei dervisci rotanti del brano che accompagna la sequenza, Voglio vederti danzare, che funge da raccordo tra i due differenti ordini di immagini.
La pratica della rotazione dei dervisci non è in questo caso soltanto meditativa, ma performativamente pacifica: Giovanni infatti può roteare sorridente perché finalmente ha trovato la pace, una pace che gli permette, dopo aver raggiunto il punto più basso (indossando quel cappio sul collo che avrebbe dovuto chiudere il sul film con il suicido del protagonista disilluso), di accettare alcune situazioni (come il fidanzamento ufficiale della figlia) che soltanto un mese prima non avrebbe accettato, pur senza rinunciare ai suoi principi. È un movimento coinvolgente, quello dei dervisci: tutti i membri del cast infatti imitano Giovanni, librando nello stesso modo, pur ognuno con il proprio imprescindibile (e talvolta impercettibile) ritmo. Un movimento puro, del corpo: Voglio vederti danzare infatti non viene cantata, e non rappresenta né un’unione simbolico-comunitaria di carattere onirico (come Ritornerai ne La messa è finita), né una nuova forma di adesione alla realtà (come Ragazzo fortunato in Aprile), ma appare invece dotata di una forza eversiva, perché giunge a compimento di un percorso avvenuto tutto nella mente di Giovanni, che nel frattempo ha effettuato dentro di sé una revisione di tutta la sua vita, per poi concretizzarsi sul set, ed espandersi dall’io del regista a tutti gli altri.
Così allora le due canzoni centrali, che svolgono apparentemente soltanto la funzione tradizionale di commento extradiegetico (pur al limite, perché il brano di Tenco sembra uscire dalla sala cinematografica, aggiungendo al catalogo già ampio del suo cinema un nuovo elemento di distribuzione mediale della forma-canzone) alle sequenze oniriche dei due giovani che si stanno innamorando, colti in due momenti topici della relazione (l’innamoramento al cinema, sulle note di Lontano, lontano e dietro lo sguardo giudicante, perplesso e al contempo stupito di Giovanni, e il litigio per le strade di Roma sulle note de La canzone dell’amore perduto), rappresentano invece un momento di cura fortemente trasformativo per l’io morettiano, che sembra rivedere retrospettivamente tutto il suo percorso cinematografico, umano e relazionale, da Michele Apicella sino a quel Giovanni tanto simile a Nanni: canzoni che non si limitano a commentare, ma inducono, attraverso la pratica del puro ascolto interiore, l’io del protagonista a riflettere, e a trasformare completamente sia sé stesso che il finale del suo film.
Il film con tante canzoni italiane che vuole girare Giovanni esiste allora già, e si dispiega nel corso di tutta la filmografia di Moretti: per la prima volta Nanni non solo mostra al suo pubblico di esserne consapevole, ma attraverso un esplicito metacanzonettismo riflette su come le parole, in fondo, non siano più così tanto importanti («sono solo parole» recitano in coro i membri del cast intonando il ritornello di Noemi), soprattutto rispetto ai sogni, e ancora di più rispetto al trovare la forza di realizzarli, con l’obiettivo di trasformare i suoi (e nostri) “se” in tanti “sì”.
Riferimenti bibliografici
L. Bertoloni, Forma-canzone e audiovisivo: compilation soundtrack nel cinema di Nanni Moretti, in “L’avventura. International Journal of Italian Film and Media Landscapes”, n. 12 (2021).
M. Corbella, a cura di, La compilation soundtrack nel cinema italiano, in “Schermi. Storie e culture del cinema e dei media in Italia”, n. 7 (2019).
R. De Gaetano, Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente, Pellegrini, Cosenza 2015.
R. Lasagna, Nanni Moretti: il cinema come cura, Mimesis, Milano-Udine 2021.
Il sol dell’avvenire. Regia: Nanni Moretti; sceneggiatura: Francesca Marciano, Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella; fotografia: Michele D’Attanasio; montaggio: Clelio Benevento; musiche: Franco Piersanti; interpreti: Nanni Moretti, Mathieu Amalric, Margherita Buy, Silvio Orlando, Barbora Bobulova, Jerzy Stuhr, Valentina Romani, Blu Yoshimi; produzione: Sacher Film, Fandango, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; durata: 95′; anno: 2023.