Dopo il sorprendente esordio – I fantasmi di San Berillo, 2013, migliore documentario italiano al Torino Film Festival – Edoardo Morabito s’immerge in un sudato corpo a corpo con i turbamenti di un reale non protetto, avventurandosi in Amazzonia per seguire l’utopia di Christopher Clark, salvare la più grande foresta pluviale del mondo. Evento speciale alle Giornate degli autori, L’avamposto nasce come racconto di eroici atti ecologici – contrastare incendi, disboscamenti, inerzia di istituzioni che dovrebbero salvaguardare popoli e foreste – per involarsi in una sapiente messa in forma auto-riflessiva.

Parto da un momento speciale del film, quando la fiducia della regia sembra staccarsi dall’empatia per l’eroe, mettendone in discussione atti e idee. Le parole di Morabito questionano l’opera di Christopher, e ne riconducono la passione a un demone personale, un’utopia da eco-guerriero rocchettaro. Infarcito, nonostante tutto, di quella benevolenza pedagogica dell’occidente di cui parlava già Pier Paolo Pasolini. È un momento di felice imbarazzo, un deragliamento in atto, in cui ci chiediamo cosa stia accadendo e dove stia “incendiandosi” L’avamposto.

Abbiamo appena osservato i limiti del villaggio progettato da Chris, in cui gli autoctoni sembrano non volere più rispondere – forse per liberarsi dalle reiterate sollecitazioni del fondatore? – alle speranze progettuali di una micro New-Town amazzonica. Quindi Chris vagare per Londra, alla ricerca di sponsor per la sua idea: riunire David Gilmor, che conosce personalmente, con Roger Waters, in un mega concerto dei Pink Floyd proprio lì, in Amazzonia, per salvare la riserva naturale di Xixaù. Appuntamento su appuntamento, Chris attraversa il jet set londinese: chi annuisce, chi pontifica, chi offre indirizzi per improbabili contatti con i Genesis o altri possibili sostenitori del progetto. Imbarazzi progressivi sino al distacco di Morabito dal suo attore sociale: laddove emerge un non detto di molto cinema documentario, quello di un rapporto di fiducia che, al progredire del progetto filmico, può accompagnarsi ad aspettative mutate, a volte tradite, sino alla consapevolezza che le motivazioni di partenza erano profondamente diverse. Per Chris supportare la sua utopia attraverso l’ipotetica promozione offerta dal film; per Morabito godere di un fantastico eroe alla Fitzcarraldo nella realizzazione del documentario.

Per questo il lavoro estetico de L’avamposto risulta esemplare. Intrecciando elementi distanti tra loro – salvare la foresta amazzonica, realizzare cinema “dal vero” – in un incrocio sul senso delle rispettive imprese, il film interviene nel rapporto fiduciario fra sapere e vedere. Da un lato l’impegno ecologico di un occidentale testardo e appassionato; dall’altro un cinema che parla spesso di altro da sé – da ciò che “realisticamente” mostra – per scrutare l’autonomia della semiosis sulla mimesis.

Ancora: da una parte il tentativo – Folle? Vincente? – di lanciare un grido planetario per il salvataggio dell’oasi di Xixaù; dall’altra una performance registica in grado di spostare l’attenzione dagli effetti di realtà alle modalità testuali della sua produzione. In gioco c’è l’originalità del processo filmico, la processualità dell’esperienza, l’idea stessa del cinema di relazione. Certo, raccontarsi in prima persona è pratica scivolosa e Morabito lo sa bene: dire “io” in un documentario resta un atto carico di rischi, ma il progressivo rafforzamento dell’assunzione di responsabilità mediale dell’autore diventa, al progredire del film, il punto di forza de L’avamposto.

La performance del regista risulta fondamentale e testimonia, qualora ce ne fosse ancora bisogno, l’importanza dell’idea di “posizionamento”, centrale nelle modalità autobiografica e saggistica del cinema contemporaneo. Anche per un aspetto timbrico. La voce di Morabito incornicia la temperatura emotiva delle immagini e grazie al suo accento regionale esalta l’idea di un cinema in prima persona, lontano dalle missioni in purezza della semplice “osservazione”. In una sorta di insubordinazione al documentario basato sul “fate come se non ci fossi”, Morabito supera l’attitudine osservativa a favore di libere risposte immaginative – come la scena finale dei musicisti, non i Pink Floyd, che suonano laddove avrebbe dovuto tenersi il mega concerto.

Espandendo il film come felice atto dell’intelletto, introducendo la dimensione poetica e rendendo più poroso il confine tra prospettiva narratologica e quella – considerata troppo impalpabile? – del mito e dell’immaginario, L’avamposto segna un altro passo verso un’idea documentaria sperimentale, nel felice abbandono di un realismo appiattito sulle celebrità e sulla rilevanza del contenuto.

L’avamposto. Regia: Edoardo Morabito; sceneggiatura: Edoardo Morabito; fotografia: Edoardo Morabito, Irma Vecchio; montaggio: Edoardo Morabito; musiche: Masmas, Vincenzo Gangi; suono: Riccardo Spagnol; interpreti: Christopher Clark; produzione: Dugong Production, in collaborazione con Rai Cinema, Intramovies, O2 Pos Producoes, Bidou Pictures; origine: Italia, Brasile; durata: 84′; anno: 2023.

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