Nel primo episodio del film di Andrej Tarkovskij Andrej Rublëv, il protagonista, monaco e pittore di icone, lasciato il suo monastero per intraprendere un viaggio attraverso la Russia del XV secolo, flagellata da guerre, carestie e pestilenze, in un villaggio contadino incontra un buffone, menestrello che con i suoi lazzi intrattiene e diverte i presenti, facendosi beffe dei potenti e della vanità delle loro ansie di dominio. L’episodio si conclude con l’intervento di una guarnigione militare che sottrae il buffone alla comunità arrestandolo. Il potere si serve del suo braccio militare per isolare chi, anche solo per gioco, prende a pallate l’aura sacrale di cui esso circonfonde il proprio agire.
Non molto diversamente, un bel libro del catalano Carles Viñas, L’arte del calcio sovietico, uscito in edizione italiana per i tipi del Saggiatore nella traduzione di Simone Cattaneo, mostra quanto tortuoso e ricco di respingimenti sia stato il percorso che il calcio, dagli ultimi decenni del secolo XIX, ha dovuto conoscere per ottenere in Russia riconoscimento ufficiale, nonostante — o forse proprio a causa di — un entusiasmo popolare spontaneo e inarrestabile prodotto da un gioco che, come tutti i giochi appassionanti, nella sua apparente e gratuita ingenuità conserva un insondabile cuore di mistero, di apertura a ciò che non può essere previsto, né dunque contenuto.
Con felice intuizione, l’autore disciplina la diacronia del suo racconto in tre capitoli cui mette il nome semplice — eppure così vincolante — della trilogia giovanile tolstoiana di Infanzia, Adolescenza e Giovinezza, sottolineando con questa scelta la giusta volontà di narrare le vicissitudini del calcio pionieristico russo come una storia composta di innumerevoli biografie individuali che non possono non giocare a un rimando di eco continua con la biografia del popolo e della nazione russa.
Il calcio, come ospite che non si era messo in conto, sbarca in Russia negli ultimi decenni dell’Ottocento sull’onda della modernizzazione delle attività produttive favorita dalla politica zarista, ansiosa di imitare modelli industriali dell’Europa occidentale, da cui la Russia era rimasta tagliata fuori a lungo. E furono gli ingegneri tessili e gli operai specializzati provenienti dalla Germania e soprattutto dall’Inghilterra e dalla Scozia che, insieme alle risorse materiali e di conoscenza dell’industria manifatturiera capitalistica, portarono con sé anche il pallone, per prenderlo a calci nel tempo libero, sui primi più improvvisati e improbabili campi da gioco. Fu inevitabile che la popolarità del calcio, seguendo le rotte di espansione industriale da ovest verso est, attecchisse prima a San Pietroburgo, che era stata fondata neanche duecento anni prima per dare alla Russia una finestra aperta sui modelli di vita che brulicavano in Europa, e solo più tardi a Mosca.
Se il primo campionato locale tra squadre di San Pietroburgo risale al 1901, bisognerà aspettare il 1910 per l’organizzazione di una competizione omologa moscovita. Ai primordi, l’elemento straniero è preponderante, nelle squadre e ancor più nella gestione politica e amministrativa della programmazione sportiva, che gli inglesi e i tedeschi trasferitisi in Russia per i propri affari riproducono secondo i modelli dei club sportivi dei propri paesi. Le frizioni tra l’elemento autoctono e quello straniero si aguzzarono in seguito agli esiti nefasti della guerra russo-giapponese, cui seguì la violenta repressione dei moti rivoluzionari del 1905.
Per preparare una nuova generazione di combattenti al servizio dello zar, i ministeri della guerra e dell’educazione introdussero l’educazione fisica nei programmi scolastici. La politica si impegna sempre più a intervenire nel disciplinamento della pratica sportiva, favorendo la proliferazione di club legati a singoli impianti produttivi, che fossero fabbriche o miniere, anche con l’intento di impegnare gli operai in attività che li tenessero lontani dall’alcol come dalle rivendicazioni politiche, due insidiosi nemici del totem produttivista. E nel 1908 a vincere il campionato di San Pietroburgo è per la prima volta una squadra di soli russi.
Ma come già accennato, nel suo testo Viñas mette bene a fuoco come la popolarità del calcio, lungi dal seguire uno sviluppo lineare, conosce continua alternanza di fasi espansive e regressive a seconda di quanto, nella stagione storica attraversata, il ceto dominante valuti di poter trarre vento favorevole o non dallo spettacolo di ventidue calciatori che, apparentemente, vogliono solo svagarsi a buttare la palla in porta una volta in più dell’avversario.
Dunque sarebbe miope declassificare, con gli occhi di oggi, a stramberia di costume le forti perplessità che le autorità religiose fecero pesare nella società zarista sulla pratica pubblica di uno sport in cui uomini e donne si cimentavano scoprendo le gambe e le braccia. Piuttosto era il segnale che da molti influenti pulpiti non si era disposti a pagare certi prezzi alla modernizzazione in corso, così come, per prestigio sociale e consenso politico, in altre circostanze lo stesso calcio potrà, suo malgrado, diventare la molla propulsiva per rincorrere le stesse pulsioni moderniste: l’inglese Henry Charnock, originario della regione di Lancashire, in cui squadre come il Bolton e il Blackburn avevano portato il calcio al centro della vita sociale operaia, a Mosca convince la massima autorità politica locale a riconoscere il suo club sportivo, l’Orechovo sports club, la cui squadra di calcio fu detta Morozovci dal nome del proprietario della fabbrica in cui lavoravano i suoi giocatori, mostrandogli una foto del principe ereditario di Prussia che gioca a calcio con alti ufficiali sul campo di calcio berlinese di Tempelhof. E il Morozovci, col vento in poppa, diventa la “tempesta di Mosca”, vincendo i primi cinque campionati locali.
Nel 1912, in occasione delle Olimpiadi di Stoccolma, la convertibilità del calcio al discorso politico deflagra sulla stampa e nell’opinione pubblica dopo che la selezione nazionale russa perde per 1-2 la gara inaugurale contro la Finlandia che, essendo ufficialmente un protettorato russo, è percepita come un avversario imposto provocatoriamente dal Comitato olimpico internazionale. Nella partita di consolazione, i russi tracollano 0-7 contro la Germania. La stampa parla di “Tsushima sportiva” in riferimento all’atto conclusivo della guerra contro il Giappone di sette anni prima. Nello stesso anno 1912 nasce la prima federazione nazionale russa di calcio e per forgiare la qualità del gioco in una concorrenza più ampia viene varato il primo campionato nazionale, nelle cui gare si decide che ogni squadra possa schierare al massimo tre stranieri.
La Grande guerra lascia sul campo due milioni di soldati russi: tre di loro avevano rappresentato il calcio russo alle Olimpiadi di Stoccolma. Uscita anzitempo dalla guerra, rovesciata la dinastia zarista, la Russia è preda della guerra civile. L’entusiasmo di Lenin per la pratica sportiva non è comune a tutti i bolscevichi, che spesso ostentano diffidenza verso il presunto potere anestetizzante dello sport sulla coscienza operaia. Ma nelle more della guerra civile i bolscevichi hanno chiaro che la vittoria e la costruzione del socialismo devono passare per un programma su vasta scala per migliorare la salute e la condizione fisica della popolazione urbana e rurale. Sul modello del Comitato di sviluppo fisico dell’impero russo, nasce l’Agenzia centrale di addestramento militare universale, il Vsevobuč, che sprigiona una nuova mitologia a supporto dell’uomo nuovo socialista, condensata nel concetto di fizkultura, cultura fisica, una base della cultura materiale dell’operaio-soldato sovietico.
Negli anni della guerra civile il Vsevobuč diede priorità a pratiche sportive utili alla guerra, come l’equitazione, la scherma, il nuoto, la lotta, ma spontaneamente, nelle pause delle esercitazioni, anche all’uomo nuovo sovietico succedeva di prediligere di dividersi in squadre e prendere a calci un pallone. Avevano un bel dire gli agitatori dell’organizzazione giovanile comunista che il calcio agonistico è controrivoluzionario perché i giocatori che si azzuffano per segnare un gol ricordano troppo i capitalisti che competono per controllare i mercati, come pure quelli del movimento Prolet’kult, che volevano introdurre le attività ginniche nella giornata lavorativa, ma criticavano il calcio giudicando i dribbling e le finte come inganni residuali della cultura borghese. Addirittura il Prolet’kult giunse a proporre che il campo da gioco fosse suddiviso in riquadri e che ogni giocatore fosse competente per uno di essi, in modo da evitare lo scontro fisico che poteva pregiudicare la fratellanza e la produttività operaia.
L’avvento della società socialista, come si può dedurre da questi aneddoti, come da innumerevoli altri che Viñas raccoglie nelle sue documentatissime pagine, per la sua portata epocale di rottura della continuità storica, assolve dunque una funzione piuttosto archetipica di un processo manipolativo del significato della pratica sportiva, che nel corso della storia si era già affacciato come continuerà sempre ad affacciarsi, ma forse negli anni fondativi dell’Unione sovietica assume delle gradazioni così parossistiche da riuscire a mettere particolarmente bene a fuoco l’insopprimibile bisogno del potere dominante di buttarsi a corpo morto su pratiche capaci di infiammare l’entusiasmo popolare, per stendere su di esse il manto più o meno visibile della propria promozione ed autolegittimazione.
E questo fa apparire anche particolarmente calzante che fin dal titolo il libro annunci di raccontare non il gioco, ma l’arte del calcio sovietico: certo, il calcio è un gioco e giocare il gioco è la base materiale necessaria alla costruzione di ogni altro discorso, ma è un’arte il modo in cui il potere costituito, di quale segno esso sia, si appropria della capacità comunicativa del gioco, come è un’arte quella che singoli individui, giocando, possono praticare esercitando resistenza al discorso ufficiale. Non fu arte politica machiavellica la mossa sovietica di rifiutare il dilettantismo elitario e borghese del Comitato olimpico internazionale, che si esprimeva nell’organizzazione delle Olimpiadi, organizzando a Mosca nel 1926 le Spartachiadi? O sottrarsi al mancato riconoscimento politico di numerosi altri paesi, che impediva alla selezione nazionale sovietica di giocare contro nazionali occidentali, istituendo in opposizione alla FIFA, autoproclamato massimo organismo del calcio internazionale, l’Internazionale dello sport rosso?
Nell’ultimo episodio di Andrej Rublëv, un notabile locale cerca maestranze per la costruzione di una campana, ma l’epidemia di peste ha ucciso tutti i fonditori di campane, tanto che il segreto di questa tecnica sembra essere andato perduto. Finché si va avanti il giovane Boriska, che dice di aver appreso sul letto di morte del padre i segreti del mestiere. La campana di Boriska, dopo trepidante attesa, farà echeggiare il contado del suono dei suoi rintocchi, mentre il suo fonditore, soddisfatto ma esausto, confiderà ad Andrej di essersi inventato la storia del padre per ricevere quell’incarico. Boriska ha saputo riprodurre la campana, eppure sente di non averne saputo carpire il mistero. Come sempre hanno fatto e continueranno a fare i potenti desiderosi di addomesticare il calcio alla propria rappresentazione, senza per questo riuscire affatto ad illuminare il mistero giocoso di ventidue giocatori che si contendono una palla.
Carles Viñas, L’arte del calcio sovietico, Il Saggiatore, Milano 2023.