Potremmo forse fare un passo avanti nel conoscere i nostri sguardi se ammettessimo che, per lungo tempo e ancora oggi, l’Estremo Oriente è stato per noi occidentali qualcosa di simile all’isola di Utopia. Qualcosa di analogo al suo essere un dispositivo immaginativo che, in quanto tale, è capace di operare al posto nostro una selezione del visibile. In una recente edizione di Utopia di Thomas More che si apre con un saggio di China Miéville è infatti scritto: «Nulla più di un sottile tratto d’oceano separa Utopia dal continente. Fin troppo vicina alla riva per trattarsi di un non-luogo notoriamente e costitutivamente situato in nessun dove» (Miéville 2023, p. 10). Utopia, nelle parole di Miéville, non è affatto un paese illocalizzabile, ma è al contrario un luogo separato dal noto solamente da un sottile tratto d’oceano. Tuttavia, quell’esile lineamento d’acqua è come se facesse tutta quanta la differenza. Soprattutto perché, come Miéville scrive poco più avanti, Utopo (da cui il nome Utopia deriva), con i suoi eserciti, quel sottile passaggio d’acqua lo ha dovuto attraversare, costringendo all’oblio forzato sia le popolazioni autoctone dell’isola, sia il nome proprio che a essa era stato attribuito prima del suo arrivo: Abraxa.

Quando posiamo il nostro sguardo sull’Estremo Oriente, allora, quegli attraversamenti minuti – e la violenza che li accompagna – dovremmo cercare di non dimenticarli. Soprattutto perché l’Estremo Oriente è per noi moderni occidentali, innanzitutto e per lo più, il Giappone in quanto isola, di cui non smettiamo di raccontare l’isolamento duraturo del periodo Edo (1603-1868) e la successiva “apertura” del 1868 con l’inizio del periodo Meiji. Non è un caso, allora, se tutto ciò che sembra interessarci nell’Estremo Oriente coincide con il nostro sguardo sull’isola giapponese, ossia con una produzione estetica – in senso molto generale – che racchiude l’Estremo Oriente unicamente all’interno di quei due secoli e mezzo di impermeabilità del Giappone a un Occidente visto come esterno. Il Giappone del periodo Edo è così divenuto per noi l’isola di Utopia, una differenza produttiva sulla quale proiettare il nostro sguardo progressivo, dimentichi però delle rovine che esso si lascia alle spalle. È così sempre più urgente una domanda: come immaginare un altro sguardo?

All’inizio del 2023 Torino sembra essere, per certi versi, il luogo adatto per porsi una simile questione. Infatti, è possibile visitare la mostra Utamaro, Hokusai, Hiroshige. Geishe, samurai e la civiltà del piacere, presso la Promotrice delle Belle Arti, a cura di Francesco Paolo Campione; allo stesso tempo, Al Museo d’Arte Orientale continuerà ad essere visitabile l’allestimento “in evoluzione” Buddha10. Frammenti, derive e rifrazioni dell’immaginario visivo buddhista, a cura di Laura Vigo e Davide Quadrio. Si tratta di due mostre diverse, forse distanti, e per questo – si potrebbe obiettare – imparagonabili. Tuttavia, se è valido quel che scrivevamo sopra, ossia che si è prodotta un’analogia che assimila l’immaginario dell’Estremo Oriente all’immagine dell’isola giapponese, riflettere sulla costruzione di questi due allestimenti può mettere quantomeno in moto un’operazione di rilocazione dello sguardo.

In che spazio scopico si collocano, allora, le due mostre? Utamaro, Hokusai, Hiroshighe, lontana dal contenere unicamente opere dei tre grandi artisti giapponesi vissuti a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo – come indica anche il sottotitolo Geishe, samurai e la civiltà del piacere –, è articolata secondo diversi ambienti espositivi, ognuno dei quali ha il compito di contenere i vari aspetti attraverso i quali l’arte giapponese è supposta esplicarsi: il paesaggio fluttuante, le rappresentazioni del teatro kabuki e , i bijinga (i ritratti di belle donne), le stampe shunga (le immagini pornografiche), le immagini di samurai o di lottatori di sumo e, per finire, un’intera sala dedicata all’Onda di Kanagawa di Hokusai, preceduta da una installazione immersiva che ne riproduce il moto. Quel che resta di una simile mostra all’occhio del visitatore è certamente la bellezza dell’esecuzione e dello stile delle opere, come ad esempio nel particolare dei piedi immersi nell’acqua nella serie di bijinga, La provincia di Yamashiro di Utamaro. Tuttavia, ogni aspettativa dello spettatore è qui perfettamente rispettata. In Utamaro, Hokusai, Hiroshige è possibile vedere ciò che, in altri luoghi e in altro modo, gli occhi avevano sempre già visto del Giappone: il suo cliché o immaginario. Un immaginario, per l’appunto, dal punto di osservazione coloniale e borghese – in un senso differente rispetto a quello utilizzato da Francesco Paolo Campione nel catalogo della mostra per descrivere le condizioni di possibilità, presenti nella società giapponese del XIX secolo, affinché la modernizzazione potesse lì attecchire con successo.

Facciamo allora lavorare lo sguardo, raggiungendo il Museo d’Arte Orientale e Buddha10. Perché tentiamo in questo caso un confronto, nonostante quest’ultimo allestimento non abbia nulla a che vedere con l’arte giapponese? Perché in buona parte – nella sua parte più interessante, verrebbe da sentenziare – il lavoro svolto dai curatori di quest’ultima mostra si sviluppa a partire dal riconoscimento del posizionamento dei nostri sguardi. Entrare nelle sale di Buddha10 significa rivedere con occhi nuovi ciò che prima di allora si era semplicemente già visto. Se l’Estremo Oriente è per noi occidentali unicamente l’isola giapponese, in Buddha10 noi scopriamo innanzitutto che l’Estremo Oriente è un arcipelago al di là dell’isola – come d’altronde lo stesso Giappone – assolutamente polimorfo. Scopriamo, dunque, che non esiste alcun Estremo Oriente, se non come dispositivo concettuale e visuale in grado di trasmutare un territorio ampissimo in un tutto-omogeneo culturale; e che questo dispositivo è tutto interno al nostro sguardo. Già in questo articolo, ad esempio, si pensi soltanto al fatto che non è stato ancora nominato nemmeno una volta l’universo delle immagini votive cinesi, grandi protagoniste dell’intera mostra. Siamo anche noi, in qualche forma, prigionieri dell’isola? Lo è il nostro sguardo?

All’interno dell’opuscolo di Buddha10, così come attraverso il percorso della mostra, ci viene posta una domanda: «Come e quando il buddhismo e il suo immaginario hanno preso piede in Occidente? E come è avvenuta la trasformazione di questi soggetti devozionali in oggetti d’arte e beni di mercato?» (Vigo, p. 14). Innanzitutto, attraverso una «estetica della frammentazione» di tutto ciò che era votivo o sacro, per renderlo – magari anche inconsapevolmente – oggetto d’arte antica. In questo modo i torsi o i capi del Buddha potevano meglio assomigliare a quei torsi arcaici d’Apollo che, come scrive Rilke, ora possono definitivamente cambiare la nostra vita a partire dalla tensione di ciò che manca, come se non mancasse. E quei torsi dell’antichità greco-romana, quelle mani, quei piedi, quelle teste e quelle gambe, a cui manca tutto il resto, sono così oggetti in sé completi, proprio in quanto questa mancanza è ciò che li rende antichi e venerabili ai nostri occhi, e forse – a meno di non adottare lo sguardo animista di Rilke – anche un po’ morti. Come sono teste morte quelle mozzate di Buddha esposte nei musei occidentali, semplicemente estratte dal loro contesto di scultura religiosa, «ambito in cui la completezza e l’integrità di un’immagine sono fondamentali per il suo utilizzo culturale e rituale» (ivi, pp. 14-15). Tuttavia, nonostante il discorso di riposizionamento all’interno di un contesto supposto originale possa sembrare nostalgico da parte dei curatori della mostra, in realtà Buddha10 non rappresenta nulla di tutto ciò. Al contrario, come si diceva, si tratta di prendere atto dell’irricostruibilità di quel contesto, e forse anche dell’impossibilità di attingervi pienamente, per riscoprire attraverso il gesto della cura e dell’allestimento un divenire-arcipelago anche dell’agency propria dei materiali esposti. Un’utopia questa che, lontana dall’avere solamente un gusto estetico per le rovine, non si permette di dimenticarle nel suo tentativo di fare spazio a uno sguardo alternativo e futuro.

Riferimenti bibliografici
C. Miéville, Vicino alla riva, in T. Moro, C. Miéville, U. K. Le Guin, Utopia, Timeo, Palermo 2023.
L. Vigo, Buddha in movimento. Sulla circolazione della cultura visiva e materiale buddhista e la sua ricezione in Occidente, in Buddha10. Frammenti, derive e rifrazioni dell’immaginario visivo buddhista, a cura di Laura Vigo e Davide Quadrio, opuscolo della mostra. 

Buddha10. Frammenti, derive e rifrazioni dell’immaginario visivo buddhista, a cura di L. Vigo e D. Quadrio, Museo d’Arte Orientale, Torino, 20/10/2022 – 03/09/2023.

Share