Si è conclusa domenica sera la terza stagione de L’amica geniale, la serie-evento (come si dice senza dare poi tanto peso alle parole) tratta dal bestseller di Elena Ferrante. Una serie capace di sviluppare un discorso sull’immaginario italiano del Novecento, sulla centralità della famiglia, sulla pubblica istruzione, sulle classi sociali, sui rapporti di genere. Una serie sulla quale si è scritto molto, talora focalizzando l’attenzione sulle criticità, talaltra esaltando la qualità degli attori oppure lo sguardo di registi e registe che si sono avvicendati dietro la macchina da presa.
Storia di chi fugge e di chi resta è il terzo capitolo, che segue le vicende delle due protagoniste alle prese con la vita adulta. Elena Greco, detta Lenuccia, si è ormai trasferita a Firenze dove è autrice di un promettente romanzo, sposata con il professore universitario Pietro Airota e madre di Adele ed Elsa. Dopo essersi separata dal marito Stefano Carracci, Lila fatica invece come operaia in una macelleria industriale, ma una volta deciso di ritornare nel Rione trova lavoro insieme al nuovo compagno Enzo come impiegata della sede napoletana dell’IBM e, infine, presso il centro meccanografico gestito dai Solara.
Rispetto alle precedenti, la terza stagione segna il passaggio dalla dimensione privata a quella pubblica. Dal racconto delle storie di alcune famiglie che abitano alla periferia di Napoli – al contempo travolte e partecipi del processo sociale e politico del Paese – si passa all’ambizione di narrare la storia d’Italia. Se, nelle prime due stagioni, il contrabbando, le trame politiche e le tensioni civili del dopoguerra costituivano uno sfondo opaco o filtrato dallo sguardo infantile delle protagoniste, adesso lo schermo si popola di professori incravattati, editori esigenti e giornalisti impegnati, sindacalisti e militanti rivoluzionari, vecchi medici bigotti e ginecologhe, terroristi rossi e camorristi. Lenuccia e Lila si aggirano in questo mondo apparentemente più “grande” – dove è possibile fare cose un tempo proibite, spingersi fino a Montpellier e non più soltanto ambire a vedere il mare di Napoli – ma fattualmente prevedibile in quanto coincidente con una passerella di figure rappresentative degli anni sessanta e settanta.
Cercando di sintetizzare la questione con una battuta, nella regia di Daniele Luchetti, L’amica geniale sembra una “meglio gioventù”. Il riferimento è all’omonimo film di Marco Tullio Giordana del 2003 e al suo tentativo di realizzare un Heimatfilm italiano, una grande narrazione del Paese dagli anni sessanta al nuovo millennio, non senza incappare in alcune criticità.
In questa geniale gioventù, l’intenzione di affrontare esplicitamente la dimensione pubblica della storia finisce per produrre un ridimensionamento delle potenzialità memoriali e testimoniali insite nella saga di Ferrante e presenti nelle prime due stagioni, che davano risalto ai corpi, alle emozioni, alle dinamiche psicologiche che si annodano problematicamente ai processi sociali e politici. Soprattutto negli episodi cinque e sei della nuova stagione, ogni sequenza, ogni personaggio e ogni gesto sembrano fare da sineddoche alla categoria storica o sociologica a cui appartengono: Pietro e la madre stanno per la borghesia intellettuale (oggi diremmo i “radical chic”?); Enzo sta per la fierezza dei subalterni, capaci di attendere indefinitamente il momento del riscatto (un po’ il ruolo interpretato da Claudio Gioè ne La meglio gioventù); la molesta visita di Pasquale e Nadia a casa di Lenuccia e Pietro a Firenze tende a riassumere la “questione” terrorismo, qui genericamente rappresentato come una forma di maleducazione; la famiglia Solara, da sempre arroganti e violenti, sta sempre di più per i “camorristi”; le bizzarrie di Lila (e, adesso, anche di suo figlio) non costituiscono più tracce di una personalità “geniale”, ma tendono verso lo stereotipo, verso l’immagine dell’opportunismo o della volubilità.
Se il film di Giordana – nella sua pretesa di farsi trovare sul posto di ogni evento della storia d’Italia – dava luogo a una sorta di “spazializzazione della storia”, la terza stagione de L’amica geniale si articola tra Napoli e Firenze, con alcuni passaggi a Milano. È principalmente Elena a spostarsi da una città all’altra. Lo fa per ragioni personali (la famiglia, l’amicizia, il lavoro) che si rendono tuttavia funzionali a illustrare ben precisi temi o avvenimenti della storia d’Italia. Soprattutto nell’episodio sette, i suoi spostamenti si fanno tanto repentini da spingere il regista a tematizzare il processo di cartolinizzazione delle città, ridotte a establishing shot che si avvicendano in dissolvenza e sui quali si staglia la silhouette di Elena e delle sue bambine. Una soluzione espressiva che può richiamare alla memoria l’immaginario dell’“Italia in miniatura” degli anni ottanta oppure il trattamento del paesaggio urbano presente in un film come Stanno tutti bene (1990) di Giuseppe Tornatore.
Napoli e Firenze sono dunque sottoposte a forme di rappresentazione diverse e assumono funzioni drammaturgiche distinte. La prima resta fuoricampo o coincide con una serie di scorci indiretti e, grazie a questo, non si lascia ridurre a souvenir, non esaurisce il suo potenziale. Lo spazio scenico del rione, la sua credibilità, può funzionare soltanto in riferimento a quel fuoricampo geografico e antropico che si chiama Napoli. Firenze coincide invece con le panoramiche sulla facciata dello Spedale degli Innocenti, il capolavoro di Brunelleschi utilizzato per marcare il territorio, segnalare che “siamo a Firenze”. Ma le tentazioni di adulterio di Lenuccia offrono anche l’occasione per passeggiate su Piazza Santa Croce e altre suggestive vedute. Firenze si prolunga dunque a Viareggio: una serie di ombrelloni per la villeggiatura degli intellettuali; spazio dell’apatia per la protagonista, qui condannata al ruolo melanconico di moglie e madre, senza possibilità di evasione.
Alla fine di questa nuova stagione tornano in mente le precedenti, con le puntate dirette da Saverio Costanzo e Alice Rohrwacher. Ad aver garantito il successo della serie era l’esplicito obiettivo di produrre immagini dense (al livello di caratterizzazione storica, geografica e dei personaggi) per invitare lo spettatore a credere in un “mondo-rione” tanto pubblico quanto privato e, soprattutto, intimo. Luchetti allarga il campo dell’inquadratura ma perde dettaglio, fa narrazione storica mettendo in serie figure tipiche e luoghi riconoscibili.
È così che la Storia di chi fugge e di chi resta ci porta a ritornare sui rapporti tra cinema e storia. Una vecchia querelle che sembrava esaurita o passata in sordina. Ma evidentemente non è così…
Riferimenti bibliografici
S. Daney, Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo, il Castoro, Milano 1995.
M. Grande, Le temperature del racconto cinematografico, in Il cinema in profondità di campo, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni, Roma 2003.
F. Zucconi, Teatralizzare la storia, rielaborare la memoria. Note per una riconsiderazione critica de “La meglio gioventù”, in “Cinergie. Il cinema e le altre arti”, n. 14, 2007.
L’amica geniale. Storia di chi fugge e di chi resta. Regia: Daniele Luchetti; sceneggiatura: Elena Ferrante, Francesco Piccolo, Laura Paolucci; musiche: Max Richter; interpreti: Margherita Mazzucco, Gaia Girace, Alba Rohrwacher (narratore), Anna Rita Vitolo, Luca Gallone, Dora Romano, Giovanni Amura, Gennaro De Stefano, Francesco Serpico, Federica Sollazzo; produzione: Wildside, Fandango, The Apartment, HBO, Rai Fiction; origine: Italia, USA; anno: 2022-in produzione.