In L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione Simondon sostiene che, sin dai suoi primordi in Grecia, il pensiero europeo si è trovato di fronte a un bivio: imboccando un sentiero ci si trovava a percorrere la via sostanzialista e unitaria, mentre l’altro cammino portava verso l’ilomorfismo. La prima strada era quella dell’unità dell’essere, autonomo, stabile e refrattario a ogni genere di alterità (da qui la scarsa considerazione per l’essere-nel-tempo e per il movimento); la seconda era quella che faceva dell’incontro fruttuoso tra una forma e una materia, reciprocamente estranee, il fondamento della genesi dell’individuo. Tra le due vie, nel loro intermezzo, tertium non datur. Tuttavia, per Simondon entrambe le vie sono attraversate da un presupposto indimostrato: che il principio di individuazione è primo rispetto all’individuazione effettiva, alla concreta ontogenesi o al sistema di realtà all’interno del quale l’individuo è collocato. Vale a dire, sia il principio sostanzialista, sia quello ilomorfico, hanno avuto l’effetto di dirigere i percorsi dell’individuazione, presupponendo l’individuo già formato come supporto o come termine che preesiste alla morfogenesi e dimenticando così che l’individuazione stessa è un’operazione o una transizione.
È allora proprio lì dove è stata posta un’alternativa rigida tra i due termini già individuati dal canone del pensiero europeo, tra la via sostanzialista e quella ilomorfica, che Simondon sente l’esigenza di un tertium datur, che non è però a sua volta un termine, ma un intermezzo tra due strade. Siamo qui come in uno spazio promiscuo, tra un bosco e due sentieri di montagna, lì dove il bosco e la strada dileguano in quanto “bosco” e “strada”. Il transindividuale è questo, un brulicare della materia che eccede e per certi versi precede i termini individuati.
Il termine “brulicare” già da sé richiama una certa sonorità della materia, della sua «grana» (Barthes 2001, p. 250). Sonorità che non si manifesta solo placidamente, come nella voce delle cicale che si diffonde tra le rocce nel famoso hokku di Matsuo Bashō, ma anche in una versione ben più perturbante, come quando nella scena di apertura di Blue Velvet (1986) di David Lynch la voce riconoscibile di Bobby Vinton si trasforma nel suono indistinto di insetti che rovistano nelle profondità della terra. La possibilità della grana di perturbare con la sua eccedenza sembra essere ciò che attraversa l’intero impianto teorico di La voce in transizione. Cinema, arte contemporanea e cultura fonovisuale (Mimesis 2023) di Annalisa Pellino. Se infatti l’obiettivo esplicito del testo è quello di smarcare dal tipico oculocentrismo della cultura europea l’idea contemporanea e ormai piuttosto sdoganata di cultura visuale (basti pensare, solo per fare alcuni esempi relativi al dibattito interno al panorama italiano, gli ormai classici contemporanei Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi di Pinotti e Somaini e Cultura visuale di Cometa, così come i loro contraltari critici come Contro la cultura visuale di De Gaetano), aggiungendo il lemma “fono” a “visuale”, una simile operazione non è però una mera addizione lessicale. L’interesse del libro di Pellino, infatti, oltre che nella ricca ricerca mediarcheologica, può essere rintracciato anche nella metafisica implicita che lo attraversa e che si colloca proprio sulle tracce di ciò che Simondon ha indicato con il termine transindividuale, nonostante il nome di Simondon non venga mai citato nell’intero volume – ma a interessare qui, più che un nome, è l’idea che emana dal testo.
La voce è per Pellino qualcosa di «in perenne transizione, che obbliga a spostamenti continui, avvitamenti e movimenti all’occorrenza circolari» (Pellino 2023, p. 17). È cioè quel transindividuale che eccede l’individuo (nel suo caso il filmico o l’immagine) e per certi versi lo precede; che da esso non è mai catturato e ad esso non è mai riducibile, poiché, benché possa esistere una voce senza linguaggio, ossia senza individuo, non può esistere un linguaggio senza voce, vale a dire senza quel preindividuale, per dirla ancora con Simondon, che rende possibile la stessa emissione della lingua. Eppure, si dirà, la voce a questo livello pare ridursi a supporto del linguaggio e della sua emissione. Ma come può essere supporto, ossia terreno stabile, qualcosa che sfugge a ogni prescrizione, ridiscutendo attraverso il suo movimento i confini di habitus rappresentazionali altrimenti codificati? Per Pellino, infatti, il valore della voce risiede «non solo nel fatto di essere il medium del linguaggio, ma anche nella sua materialità, corporea e tecnologica […] nonché nelle sue occorrenze sociali e culturali» (ivi, 20). Ed è proprio attraverso questa materialità della voce che viene disattivato ogni tentativo di simbolizzazione o riduzione di essa a significati dati nella lingua. Basti pensare alla moltitudine di esempi che Pellino fa della «costitutiva instabilità della lingua» e come questo, tra i vari, permetta a una ragazza di:
“suonare” come una donna matura, mentre voci fisicamente simili possono risultare completamente differenti, e voci diverse possono essere confuse fra loro. Inoltre, stili e tecniche rispondono sempre a condizioni e interessi contingenti, e spesso ciò che rende “autentica” la performance vocale si confonde con le nozioni di razza, genere e classe (ivi, 22).
La voce è infatti sempre «estensione indisciplinata del corpo» (ivi, 140), ma il corpo non è per nulla il corpo umano normato, perché essa fugge di fronte a ogni tentativo di normatività. Fugge, tuttavia, non perché non possa essere normata – Pellino mostra anche esempi di come questo avvenga, come quando passa in rassegna le maniere in cui si è fatto proprio della voce un segno individuante il soggetto, come nel caso del passaggio all’adultità – ma perché ogni territorializzazione della voce non è altro che un passaggio in vista di una nuova deterritorializzazione. La voce è infatti materialmente ciò che diviene nella sua costitutiva instabilità: divenire-donna, divenire-animale, divenire-minore. Tre generi di divenire che, in quanto analizzati a partire dal dato visuale dell’immagine e del cinema – la “letteratura maggiore” nel caso di Pellino – per mezzo della voce si infiltrano in esso, scompaginandolo e mettendolo in movimento. Non è infatti il caso di separare radicalmente la voce dall’immagine, in quanto quest’ultima è piuttosto abitata dalla prima. Solo che questo abitare è perturbante, come quando nelle estetiche queer prese in esame da Pellino, la voce prende forma attraverso il rumore, la dissonanza e il camp:
Il rumore crea un disturbo nella progressione audiovisiva opacizzando la narrazione in senso sia testuale sia fenomenologico, la dissonanza genera una vera e propria rottura al suo interno, mentre il camp realizza, attraverso un eccesso di musicalità e di teatralità, fra il criptico e l’ironico, una discordanza tra canto e immagine (ivi, 124).
Vediamo allora come è lo stesso libro di Pellino che segue un divenire: un divenire-politico che non è però più il Politico come sostantivo, ma un campo di lotta intersezionale – come dichiarato più volte dall’autrice – e metapolitico, aperto e transitivo, mai completamente codificabile, in grado di disattivare e riattivare attraverso la materialità della voce nuovi orizzonti per l’immagine e per il pensiero. Voce nell’immagine o nel pensiero non più come surplus aurale, semplice messa a profitto di un’eccedenza o di una nuova forma di identità, ma espressione di una pura eccedenza improduttiva, una dépense, linea di fuga da ogni genere di identità.
Riferimenti bibliografici
R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001.
G. Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, Mimesis, Milano-Udine 2011.
Annalisa Pellino, La voce in transizione. Cinema, arte contemporanea e cultura fonovisuale, Mimesis, Milano-Udine 2023.