Si può affermare che l’introduzione del sonoro e del parlato sia stata una delle più grandi svolte nella storia del cinema. Secondo il critico francese André Bazin essa fu fautrice di una significativa evoluzione del linguaggio cinematografico, che avrebbe in seguito rivelato l’esistenza di due tendenze estetiche opposte: tra «i registi che credono nell’immagine e quelli che credono nella realtà» (1999, pp. 74-75). Se da una parte l’utilizzo del suono sincronizzato portava a compimento il progetto di riproduzione tecnica della realtà, dall’altra molti teorici e cineasti degli anni ’20 e ’30 rifiutarono la visione teleologica che vedeva nel progresso tecnologico il perfezionamento del film come forma artistica, identificando invece nella forma astratta la specificità estetica del cinema. Nei termini di Elsaesser e Hagener (2009), il suono crea per la prima volta nell’immagine bidimensionale un’apertura su una realtà tridimensionale, che per un convinto sostenitore dell’arte del film muto come Rudolf Arnheim si traduceva in una «perdita di purezza ed espressività»:

L’acustica completa perfettamente l’illusione. Il bordo dello schermo non è più una cornice, bensì il margine di un tutto, di uno spazio teatrale: il suono trasforma lo schermo in un palcoscenico nello spazio. Una delle principali e speciali attrattive del cinema è il fatto che ogni scena pone una sfida: frammentazione di immagini e movimento sulla superficie versus corpi plastici e moto nello spazio. Il film sonoro sospende quasi del tutto questo doppio gioco esteticamente significativo (Arnheim in Elsaesser, Hagener 2009).

La critica mossa da Arnheim in realtà mette in evidenza un aspetto particolarmente rilevante riguardo alle potenzialità spazializzanti del suono: quella dell’udito è sempre «una percezione spaziale» in grado di creare «un’immaginaria topografia cinematografica» (Elsaesser, Hagener 2009). Mentre l’immagine del mondo appare delimitata dai contorni dello schermo, il sonoro che proviene ad esempio dal fuori campo «ha il potere di valicare questi confini e di portare lo spettatore dentro ciò che lo sguardo della cinepresa non riesce a registrare» (Mileto 2023, p. 52). In questo modo, lo spettatore non risulta «più un ricettore passivo posto al vertice della piramide ottica, bensì un essere coinvolto acusticamente, spazialmente e affettivamente nel tessuto filmico» (Elsaesser, Hagener 2009).

Nella rappresentazione della realtà, dunque, il piano sonoro può rapportarsi in maniera creativa a quello del visivo, attivando anche percorsi immaginari e non semplicemente esplicativi. Il libro di Alma Mileto, La voce del reale. Il rapporto voce-immagine nel cinema documentario (Meltemi, 2023), identifica nell’utilizzo della voce nel documentario contemporaneo «una parola che chiede allo spettatore un ascolto interattivo, capace di creare delle connessioni lì dove non le avrebbe mai pensate» (Mileto 2023, p. 19). Quella della focalizzazione sulla voce si dimostra sin da subito una prospettiva originale, e risulta particolarmente adatta alla ricostruzione genealogica del sonoro nella forma documentaria. L’esito di questo processo trasformativo innescato dalla voce è il cinema del reale, per l’autrice «uno dei terreni di maggior sperimentazione del complesso rapporto tra piano dell’immagine e piano del linguaggio» (ivi, p. 14).

Caratterizzato dalla «consapevolezza dei linguaggi, il cinema del reale si pone come sguardo critico sulle rappresentazioni della realtà, sulle forme mediatiche e sui cliché» (Dottorini 2018, p. 15). Ecco perché a questa forma filmica sperimentale non può corrispondere più un utilizzo della voce di tipo puramente espositivo, come quello previsto dalla cosiddetta “Voice of God”, una «voce narrante autoritaria e indipendente dal piano rappresentativo» (Mileto 2023, p. 79), ancora dominante nel cinema documentario.

La nuova voce del reale è invece da ricercare nei particolari contrappunti voce-immagine che sono stati realizzati nel contesto del documentario italiano degli ultimi vent’anni. In La voce del reale, l’incontro corpo a corpo con le opere filmiche però non si estingue nella descrizione di uno stato delle cose; infatti, è proprio a partire dall’esperienza di questo cinema che avviene l’elaborazione teorica del concetto di oro-medialità. L’espressione si riferisce in maniera specifica al «ruolo della voce in una forma intermediale di racconto», e contiene al suo interno

entrambi i poli: quello riferito ad un montaggio tra diversi media (tra cui la voce stessa) dal cui incontro dialettico emerga il senso del racconto; e quello che riguarda un ruolo della voce più pret­tamente carnale, riguardante un’emissione prodotta dall’or­gano labiale – os, oris in latino può significare “bocca” ma anche “voce” – che trattenga in sé l’aspetto fisico e intimo che lega il linguaggio alla sua matrice corporea, facendo sì che il parlato risalga verso uno stadio più antico della narra­zione, direttamente connesso con la sua emanazione fonetica e con la fluidità con la quale si muove sul piano della rappre­sentazione (ivi, p. 216)

I riferimenti concettuali sono quelli dell’oralità-graficità di Pasolini e dell’intermedialità dell’immagine contemporanea teorizzata da Pietro Montani. La tensione tra orale e mediale così delineata è anche questa volta esemplificata attraverso casi prelevati dal cinema contemporaneo: essa si manifesta nella «terra di mezzo tra scrittura […] e atto di parola» (Mileto 2023, p. 236) della voce epistolare di Alina Marazzi in Un’ora sola ti vorrei (2002); oppure, in quella disvelatrice e allo stesso tempo finzionale delegata al controcampo di Gigi la legge (2023) di Alessandro Comodin; fino ad arrivare ai «monologhi animati» di Zerocalcare (Strappare lungo i bordi, 2021, e Questo mondo non mi renderà cattivo, 2023).

Nella commistione di diversi formati mediali, la componente orale della voce apre l’immagine al rapporto con una natura più arcaica. I cineasti del cinema contemporaneo possono allora richiamare «la potenza degli antichi aedi, in grado di cantare, nel mentre si muovono tra materiali e media diversi, la propria stessa voce» (ivi, p. 228). Il lavoro di Mileto sulla voce nel cinema riscopre infine il desiderio di raccontare storie: il pregio del libro risiede nella capacità di far dialogare l’elaborazione teorica e l’incontro critico con gli oggetti.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, L’evoluzione del linguaggio cinematografico, in Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 2016.
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano-Udine 2018.
T. Elsaesser, M. Hagener, Orecchio e suono, in Teoria del film. Un’introduzione, Einaudi, Torino 2009.

Alma Mileto, La voce del reale. Il rapporto voce-immagine nel cinema documentario, Meltemi, Milano 2023.

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