Quella di Lisa Sergio, conduttrice radiofonica che ebbe fortuna nell’Italia fascista e che però poi, improvvisamente, finì annoverata nel libro nero del regime dovendo quindi riparare (complice la benevolenza di Guglielmo Marconi) negli Stati Uniti, ove ugualmente conobbe apici ed eclissi, è stata una vita che, a volerla sottoporre al tentativo di darne, per come possibile, uno scrutinio organico, finisce per mettere in crisi le possibilità di tenuta di qualsiasi approccio giudicante.

Consiste probabilmente in questo l’effetto più umanamente e intellettualmente significativo della biografia La voce d’oro di Mussolini scritta da Sandro Gerbi, il quale, in molti anni di lavoro, ha maturato una più volte plaudita esperienza nel giornalismo economico e culturale, e, per quanto attiene alle ricerche di storia contemporanea, ha pubblicato, fra le altre cose, libri come Tempi di malafede ed Ebrei riluttanti, oltre alla biografia di Indro Montanelli scritta con Raffaele Liucci.

Lisa Sergio, che era «ritenuta da tutti intelligentissima» (Gerbi 2021, p. 94) e «attraentissima» (ivi, p. 99), era una «trilingue perfetta» in quanto signoreggiava, oltre all’italiano, il francese e l’inglese. Unico frutto dell’amore tra Agostino Sergio e Margherita Fitzgerald (la madre era «figlia di due facoltosi americani», ivi, p. 211), «nacque a Firenze il 17 marzo 1905» (ivi, p. 21). Nella città natale inizia a lavorare come giornalista con incarichi di responsabilità redazionale, o come direttrice, per dei settimanali, prima il “The Italian Mail” e poi il “The Italian Tribune” (siamo tra il 1923 e il 1926). Erano entrambi giornali di solida e salda osservanza fascista ed erano destinati ai «residenti di lingua inglese e ai numerosi turisti di passaggio» (ivi, p. 31).

Nel 1933 la sua carriera si volge all’ascesa con l’ingresso negli apparati di supporto dei vertici dello Stato. Prende infatti servizio nell’Ufficio stampa del Governo Mussolini, alle dipendenze di Galeazzo Ciano: grazie alle sue qualità, e a una tenacia non disgiunta da intraprendenza, diventa ben presto una sorta di star del mondo radiofonico. Traduce e trasmette negli altri paesi la propaganda del regime in camicia nera, compresi i tristemente famosi discorsi di Mussolini sulla nascita dell’Impero e sull’Asse Roma-Berlino (entrambi del 1936), e non tarda ad arriderle «una vasta popolarità all’estero» (ivi, p. 212).

Tutto questo sino al 1937, anno in cui è «costretta a dare le dimissioni» (ivi, p. 101) e di conseguenza a lasciare l’Italia per l’America (dove arriva accompagnata dalla sua fama), a quanto pare a causa del deteriorarsi dei rapporti con Ciano. A determinarne lo scadimento sarebbe stato il sopravvenire di una non sanabile incrinatura destinata a portare burrasca lì dove s’era avuto il sereno. È, questo, per Lisa Sergio, un punto di non ritorno, non troppo diversamente da quanto succede a Madame de Prie nella Storia di una caduta di Stefan Zweig: come nel racconto, gli editti segreti delle alte sfere provocano il precipitare improvviso di una donna e la sua insindacabile estromissione da uno spazio eletto.

È un momento decisivo nella vita di questa donna così vivace e piena di conoscenze eppure così sola. «La partenza dall’Italia nel giugno del ’37 – scrive Gerbi – rappresenta lo snodo cruciale nella biografia della Sergio. Sia da un punto di vista pratico, perché da allora sino alla morte risiederà negli Stati Uniti acquisendo anche la cittadinanza americana nel 1944, sia da un punto di vista “ideologico”, in quanto segnerà il suo passaggio definitivo ai valori della democrazia» (ivi, p. 109).

In America, nonostante le peripezie mai pienamente delucidate che avevano reso critica la sua posizione in Italia, Lisa Sergio si inserisce molto bene, anche grazie alla sua straordinaria capacità relazionale, ossia quella vocazione alla socialità che le permette, forte dei modi attenti e dei toni brillanti, di essere amica di Eleanor Roosevelt così come di Ann Batchelder, la donna che nel 1941 la adotterà per farle ottenere la cittadinanza statunitense («Nel ’52 le due donne si trasferirono a Woodstock nel Vermont», ivi, p. 138).

Per la radio Lisa Sergio aveva un’inclinazione naturale. Negli Stati Uniti è prima annunciatrice della National Broadcasting Company e poi commentatrice della WQXR. Che fosse un’autodidatta di genio è confermato dal fatto che del sistema radiofonico era considerata un’«esperta» (ivi, p. 158), dotata com’era, fra l’altro, della capacità di concettualizzare criticamente il medium, è il caso di dire, in medias res, specialmente riguardo le diverse impostazioni e i differenti effetti psicologici sortiti negli ascoltatori dalle «tecniche della dittatura e della democrazia» (ivi, p. 142). Per averne un esempio delle sue competenze è sufficiente pensare a quella sua accorta comparazione tra l’organizzazione retorica degli interventi di Mussolini e quelli di Roosvelt cui Gerbi dedica giustamente attenzione. Non deve essere stato allora casuale se tempo dopo «le furono affidati anche alcuni corsi di Sociologia alla Columbia University» (ivi, p. 170) incentrati sul tema dell’opinione pubblica.

La sua vita negli Stati Uniti conosce un cambiamento che «le procura un nuovo trauma» (ivi, p. 152) quando, nonostante le critiche da lei mosse al regime mussoliniano, a una situazione di sospetto se ne sostituisce una di segno uguale e contrario: cioè quando al sussurro che l’aveva voluta ancora, in qualche misura, segretamente legata al fascismo, subentra tempo dopo quello sulle «sue ipotetiche simpatie comuniste» (ivi, p. 167). In un clima avvelenato dai «prodromi della “caccia alle streghe” e dei drammi connessi, di cui sarebbe stato protagonista dal ’51 al ’54 il senatore repubblicano Joseph McCarthy» (ivi, p. 170), Lisa Sergio si vede costretta a fronteggiare una situazione a polarità invertita rispetto alla precedente: la vicenda, proprio per questo, ha del paradossale, e può forse essere spiegata con una malintesa valutazione del maturare delle sue convinzioni democratiche.

Sandro Gerbi ha il merito di aver condotto con piglio e sagacia d’indagine un non poco faticoso lavoro di ricostruzione dei fatti, non di rado trovandosi nella condizione di doversi muovere tra riscontri assenti, carte d’archivo reticenti, vuoti e le dichiarazioni della stessa Sergio, tra «interviste rilasciate ai giornali sin dal suo sbarco a Manhattan», «profili distribuiti in occasione di conferenze» e «frammenti autobiografici reperiti tra le sue carte». Materiali nei quali – spiega Gerbi – «le incongruenze abbondano» ed «è facile smarrirsi» (ivi, p. 181): la Sergio, a quanto si apprende, avrebbe difatti sempre «preferito autorappresentarsi attraverso una galleria di mistificazioni» (ivi, p. 183) e per questa ragione è tuttora «difficile orientarsi tra le varie versioni da lei proposte e le insufficienti carte d’archivio» (ivi, p. 43).

Quale che sia, o quale che possa essere stata, la realtà dei fatti (che è un feticcio o un’utopia, a seconda di come la si consideri), e schivando decisamente ogni possibile semplificazione inutilmente e vanamente definitoria, ovvero ogni riduzione di complessità che possa giovarsi di una malintesa collocazione “teofrastizzante”, per così dire, cioè di un incapsulamento coatto delle turbolenze di un’esistenza all’interno della formina di un “carattere” (nessun biasimo, sia chiaro, per il filosofo: semmai per la distorsione che potrebbe farsene), si può senz’altro dire, a proposito del sincopato e tumultuoso percorso di vita di Lisa Sergio ricostruito da Gerbi, che ogni qual volta paia d’iniziare a scorgervi una qualche fase di piena visibilità, viene puntualmente ad aggiungersi o mancare, nel cafarnao dei plausibili o probabili nessi di causalità, un qualche tassello: e così il quadro che andava definendosi conosce uno squilibrio e vede revocato ogni nitore in una strana e persino affascinante indecifrabilità.

Basti dire che la donna resa titolare dall’FBI di un fascicolo di trecento pagine era la medesima che nel 1947 ottenne a Parigi la Legion d’onore, «sia per aver sostenuto durante la guerra, con le sue trasmissioni, l’organizzazione politico-militare France libre (costituita nel 1940 da Charles de Gaulle a Londra per partecipare alla lotta a fianco degli Alleati), sia per aver contribuito negli Stati Uniti al successo della raccolta di fondi a favore della Francia occupata» (ivi, p. 169).

A tratti, nel leggere La voce d’oro di Mussolini, è addirittura faticoso (e davvero non lo si può negare) resistere alla tentazione di cedere alla via “facile” e risolversi a reputare la Sergio come una sorta di clone di Long John Silver o come una Tom Ripley ante litteram, e dunque, in altre parole, a contentarsi di vederla come una persona capace di barcamenarsi con cinismo e singolare destrezza tra non pochi e non infrequenti cambiamenti di fronte. È però una suggestione: e quello che veramente ci si domanda, a fronte di una simile congerie di fatti e di imprevisti degni di una storia di spie, è se davvero a farla da protagonisti nella sua vita siano stati la scaltrezza e l’opportunismo o se invece non abbiano espresso un condizionamento ben più vincolante la sfortuna e la delazione (ipotesi, questa, decisamente più plausibile).

L’impressione più forte e persuasiva è che, comunque siano andate le cose, nella sorte di Lisa Sergio, il caso, con il tanto d’imponderabile e d’ironico che gli è consustanziale, nel bene e nel male abbia inciso in un ordine di grandezza determinante e assai maggiore di ogni sua possibile volontà o strategia. Questo, per lo meno, è possibile dirlo adesso, certo con mille cautele, a tanti anni di distanza, e verosimilmente dopo troppi veti e altrettante reticenze, da quelle che, nell’immediatezza concitata dei fatti, dovettero appalesarsi come le conseguenze di molte e forse troppe scelte.

Gli amanti del giallo non troveranno in questa biografia (che offre anche il raffronto tra due società profondamente diverse: l’italiana e l’americana) le sorprese e le relative risposte tipiche del genere prediletto, ma qualcosa di affine: e cioè il continuo mutare delle situazioni e delle figure, l’infittirsi delle domande e il diradarsi delle evidenze, come in una girandola di misteri e silenzi improvvisi e inviolati. Tuttavia, letta l’ultima pagina, a restare in piedi è una domanda che si dirama in due questioni tali da porre il lettore in una fertile condizione interrogativa.

La prima: quanto conta, per la ricostruzione della storia di una persona che abbia lasciato, per volontà o per forza maggiore, non molto di intelligibile di sé, o magari anche parecchie confuse tracce, oppure appena un nugolo di dati relitti, il residuo visibile dell’agito? In quale misura, insomma, quanto sopravvive alla vita che l’ha espresso può autorizzare, o per lo meno avallare, le approssimazioni, le ipotesi e le deduzioni di una qualsiasi ricostruzione, nonostante ogni inevitabile insufficienza circa la leggibilità di talune situazioni?

Il problema rischia d’inclinare al filosofico, e porselo significa andarsi a impelagare in un argomento complicato qual è quello dei «rapporti, intricati e ambigui, tra il giudice e lo storico», per citare il libro di Carlo Ginzburg (il quale a sua volta risale a Calamandrei e Calogero), tanto più che, neppure in questo caso, può rimanere estraneo al discorso il sattiano «carattere veramente drammatico che è intrinseco al processo».

Quanto, invece, alla seconda questione, quel che viene da chiedersi è se la non discutibile eccezionalità di un talento, unitamente all’originalità di un vissuto difficoltoso (com’è quello di ciascuno) e particolarmente accidentato e avventuroso (come non è quello di ciascuno), possano accreditare, più in generale, la “straordinarietà” di una figura che, al netto delle sue acclarate qualità e dei suoi successi, e in definitiva al di là di una sagacia brillantissima e piena di carisma, potrebbe in fondo risultare più “normale” e comprensibile, nei suoi atti e nelle sue azioni così come nelle sue mosse e contromosse, di quanto a prima vista (vuoi anche per la rinomanza delle amicizie e la qualità delle relazioni) si potrebbe essere portati a ritenere, almeno laddove non si faccia ricorso a una visuale problematizzante.

Allora questo: se fosse possibile farlo, a investigarla ulteriormente, a spremerla del tutto, a sondarla in ogni silenzio e a rischiararla in ogni segreto, la vita di Lisa Sergio vedrebbe ridimensionarsi oppure accrescersi i volumi di segreto che sembrano cingerla? Sospinto da simili domande, il libro di Gerbi continua a propagarsi nel lettore ben oltre l’ultima parola: un’ultima parola che, in questo caso più che mai, è, fra tutte, la meno pensabile e la meno ammissibile.

Riferimenti bibliografici
C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Feltrinelli, Milano 2006.
P. Highsmith, Il talento di Mr. Ripley, trad. it. di M. G. Prestini, La nave di Teseo, Milano 2017.
S. Satta, Il mistero del processo, Adelphi, Milano 1994.
R.L. Stevenson, L’isola del tesoro, trad. it. di M. Bocchiola, Einaudi, Torino 2015.
Teofrasto, I caratteri, introduzione, traduzione e commento di G. Pasquali, Bur, Milano 1979.
S. Zweig, Storia di una caduta, trad. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2010.

Sandro Gerbi, La voce d’oro di Mussolini. Storia di Lisa Sergio, la donna che visse tre volte, Neri Pozza, Vicenza 2021.

Share