Se c’è un termine adatto a definire La vita nuova questo è senz’altro rituale. Soprattutto se accogliamo la definizione che del rituale dà il sociologo Henri Hatzfeld, ovvero un’azione che ha priorità sul dire. Ma è un’azione che esprime simbolicamente sempre qualche cosa, il vissuto, i desideri e le angosce di un gruppo. Il rito resiste alle rivendicazioni dell’individuo moderno, perché ha un carattere inafferrabile, come il linguaggio d’altronde. Non si inventa mai un rito a partire da niente, ma lo si riceve e lo si ripete secondo un ordine preciso.
Il rito sorge dall’urgenza e dalla necessità di agire in situazioni limite, come la morte o la nascita, che ricordano all’uomo la precarietà della sua condizione. Esso rappresenta allora un modo di affrontare l’angoscia di fronte a ciò che è minaccioso, poiché fuori dal suo controllo.
Dalla stessa urgenza di proteggersi da una minaccia nasce anche La vita nuova. Lo spazio in cui gli attori si incontrano ne è il risultato. Non è affatto ricercato con cura, ma al contrario rappresenta un luogo di fortuna, in cui trovarsi per inventare un mondo nuovo. Ciò a cui assistiamo è a tutti gli effetti un rito intorno al motore di una macchina che dorme e alle ruote che girano a vuoto: il potenziale puro e immobile. Si celebra qui la forza frenante e la preparazione silenziosa di una rivolta.
La Grande Halle de la Villette di Parigi è irriconoscibile, trasformata com’è in un immenso garage dall’aria cimiteriale: infinite file di macchine avvolte in teli grigi si susseguono come lapidi. La polvere si solleva, riempie tutto lo spazio, annebbiando la vista. Non solo le automobili quindi ma anche il nostro sguardo finisce per essere velato. Dapprima un sacerdote e poi altri quattro fanno il loro ingresso sulla scena. La loro gestualità ha il potere di trasformare questo non-luogo in un tempio. Nel loro atto di riunirsi in cerchio è concentrato l’epos della narrazione tragica: il momento dell’azione pura. In un silenzio perforato dall’attesa irrompe come un grido il testo di Claudia Castellucci. Uno dei sacerdoti si fa avanti. È lui ad annunciare la necessità di un nuovo inizio, di cui il ramo consegnato a uno spettatore è il simbolo. Egli rivela che in questo luogo non c’è libertà. Va quindi cercata altrove. Anche se non è facile abbandonare questo spazio, quest’azione è comunque possibile.
È l’ontologia del non-essere-ancora di Ernst Bloch. Nell’opera Lo spirito dell’utopia egli sostiene che il futuro sia iscritto nel presente come possibilità oggettiva. La sua concezione utopica risente fortemente dell’influenza del naturalismo rinascimentale e del concetto di natura naturans di Giordano Bruno. La materia è infatti concepita come forza creativa, pervasa da un impulso verso la propria realizzazione in forme nuove. Non è mai data e compiuta ma sempre aperta a nuove possibilità.
Nel pensiero di Bloch il tema dell’utopia è legato al concetto di speranza. Per Bloch si deve imparare a sperare perché la speranza è superiore all’inquietudine. A differenza di quest’ultima, passiva e prigioniera del nulla, essa accresce gli uomini, invece di diminuirne la potenza. In Bloch pensare significa oltrepassare un limite, ma senza ignorarne l’esistenza. Il nuovo è sempre mediato con ciò che esiste e che è in continuo movimento. La speranza nasce dalla consapevolezza che il possibile è già iscritto nel reale. È questo il punto in cui la filosofia di Bloch si incontra con La vita nuova. Ma il filosofo tedesco influenza questo spettacolo senza rappresentare né un punto di partenza né di arrivo di questo lavoro. Come Romeo Castellucci spiega, non c’è nessuna traccia di Bloch ne La vita nuova. Il suo pensiero è nell’aria come la polvere, che ha velato il nostro sguardo all’inizio. Così come il concetto di non-essere-ancora, anche il teatro di Romeo Castellucci è in continuo divenire.
Se l’utopia è certamente adatta a spiegare l’impulso alla trasformazione, espresso nel testo di Claudia Castellucci, essa non è adeguata a descrivere lo spazio scenico, che è certamente più simile a un’eterotopia. È interessante quindi immaginare il modo in cui questi due concetti coesistano qui sul piano testuale e scenico. Il rito stesso per sua natura è già caratterizzato da un’eterotopia, poiché avviene in dei luoghi e dei tempi, con degli oggetti e degli intermediari che rompono il piano del quotidiano. Se da un lato esso è compiuto sul margine dell’ordinario, deve anche situarsi sul suolo del sacro per non divenire insignificante. Questa rottura con l’immediato evita la banalizzazione e crea uno spazio aperto all’alterità e alla grazia di Dio.
La scenografia de La vita nuova allora è doppiamente eterotopica poiché in essa si compie un rito e contemporaneamente due luoghi come il possibile e il reale si incontrano. Il possibile coincide con il rito come momento del raccoglimento e della purificazione in preparazione a un mondo nuovo. Il reale con la volontà della sua trasformazione espressa nell’annuncio. Ad accentuare ancora di più la presenza dell’eterotopia in questo spazio scenico è il ruolo dello spettatore, che, come nel quadro Las Meninas di Vélasquez descritto da Foucault ne Le parole e le cose, è spaesato poiché si sente spodestato. Non comprende più qual è la sua posizione. Allo stesso modo lo spettatore che assiste a La vita nuova non ha un posto assegnato. Egli si muove nello spazio seguendo i movimenti degli attori.
Ne L’archeologia del sapere Foucault scrive che le utopie consolano perché, pur non avendo un luogo reale, si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e le eterotopie inquietano, perché spezzano i luoghi comuni, perché devastano la sintassi che fa tenere insieme le cose. Allora La vita nuova, nella sua doppia natura utopica e eteropica, è in grado di inquietare e consolare insieme.
Dopo che il rito è stato compiuto, la parola viene annunciata. Il testo di Claudia Castellucci esprime la volontà di creare un mondo nuovo. Ma un’azione trasformativa è stata già compiuta prima dell’annuncio. Una macchina è stata rovesciata. Questo gesto, che i cinque uomini compiono insieme, è il preludio della loro volontà di agire, di trasformare il mondo. Una volta sollevata, l’automobile svela il suo segreto: il busto di una statua incastonata accanto al motore, simbolo dell’arte libera. Per compiere la rivolta, spiega Castellucci, non occorre distruggere l’ordine delle cose. È sufficiente invertirlo. Rovesciare la macchina simboleggia quindi la ribellione dell’arte decorativa contro l’arte libera. Il design industriale si oppone qui alla scultura, esprimendo il desiderio di riscrivere l’arte nella vita. Il decorativo diventa lo strumento di trasformazione del quotidiano. È il gesto dell’artigiano che si riappropria della sua stessa arte. Si tratta quindi di un gesto politico e liberatorio.
In tutti i suoi lavori Castellucci ricerca continuamente l’origine del teatro. Ogni suo spettacolo è la messa in scena di una genesi. Formatosi come artista, egli ha una visione organica della scrittura scenica. Parte da una materia e la modella fino a quando l’opera non è compiuta. Lavora con gli attori e con la musica come qualcosa a cui dare forma. Come ha messo bene in luce Rafaëlle Jolivet Pignon nel suo La Répresentation rhapsodique, Castellucci si confronta con l’azione come un demiurgo. Comincia con un’accumulazione di materia, che a mano a mano trasforma, e durante questo processo tiene un taccuino in cui annota i suoi pensieri. Potremmo dire che anche questa prima fase di annotazione rappresenti un rituale.
Quello che ne viene fuori è un insieme di appunti, di sensazioni, di idee. La fase successiva prevede l’elaborazione di questo caos, la sua liberazione, per poter esplorare le sue possibilità. Si tratta di comprendere che cosa questo caos voglia comunicare. La materia, spiega Castellucci, è oscura. Rileggendo il quaderno di appunti, il regista si accorge che affiorano delle tracce che diventano più forti di altre. Si creano allora, indipendentemente da lui, delle linee e allora a lui non resta che seguire questa costellazione.
Riferimenti bibliografici
E. Bloch, L’esprit de l’utopie, Gallimard, Paris 1959.
E. Bloch, Le Principe Espérance, vol. I, Gallimard, Paris 1976.
M. Foucault, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966.
F. Lefebvre, Théâtre et liturgie, Fides, Quebec 1988.
R.J. Pignon, La Représentation rhapsodique, L’Entretemps, Montpellier 2015.
*In anteprima e in copertina una foto di scena di Stefan Glagla.