La vita liberata

di ROBERTO DE GAETANO

Eastwood, le aporie dell’azione, gli equivoci della critica. 

Le ragioni per cui la critica ha mancato l’appuntamento con 15:17 – Attacco al treno sono esattamente le stesse per cui quei tre anonimi ragazzi californiani l’hanno colto. La casualità con cui un accadimento trasforma tre giovani senza qualità in eroi, mantenendoli tuttavia nel loro insignificante anonimato, si ribalta allo sguardo critico nella necessità che quel loro essere eroi non sia causale ma segnato da un senso, da un’ideologia.

Ma quel senso non è il destino eroico che attraversa l’ordinario, capace di trascendersi spinto da ideali e valori. Nulla di tutto questo. In gioco qui è la potenza inscritta nell’insignificanza di una gioventù senza qualità né particolari volontà. Non c’è nulla che i ragazzi non facciano, se non catturati dal desiderio dell’altro: dall’arruolarsi nell’esercito (mancando tra l’altro, per pigrizia, al rigore dell’addestramento) alla scelta di andare ad Amsterdam (suggerito da un avventore in una birreria tedesca). Le istituzioni che presiedono alla formazione del soggetto falliscono: scuola e vita militare non riescono a corrispondere ad una presenza al mondo resistente per assenza di qualità (con efficace espressione Alessia Cervini l’ha chiamata “ottusità dell’essere”). I ragazzi vengono liquidati come patologicamente disattenti a scuola o inadempienti durante il servizio militare. Ma cos’è questa resistenza al mondo per inefficacia, dove una potenza di vita viene sospesa nel suo attuarsi (Alek sta in Afghanistan senza fare nulla)? E si realizza come vacanza nel tour europeo dei tre, ribaltando i tanti viaggi jamesiani in Europa di intellettuali e borghesia americana? Qui restano solo selfie che immortalano istanti ammirati, qualche rimorchio e qualche bevuta, e nulla più.

Esemplari sono i raccordi di montaggio che concatenano presente e passato, sfidando ogni legame di causalità: le ragioni del presente non stanno nel passato, come ancora emergeva in American Sniper (2014) nella scena di caccia del bambino accostato al cecchino. Non è il passato che porta al presente, secondo un principio di crescita e di compimento organico. Il presente è l’emergere contingente di qualcosa che attua senza giustificazioni una potenza fino a quel momento inattuata, e pronta a tornare potenza dopo i rituali dell’assegnazione delle medaglie all’Eliseo e del ritorno a Sacramento. I volti inespressivi dei ragazzi individuano una zona liscia, senza carattere (dunque senza profilo, né limiti): epidermici, segnati da un vacuum che contrassegna una potenza di vita non orientata dalla volontà, non segnata da frustrazione; marcata semmai da una generica apertura al mondo e agli altri, che li guida ad arruolarsi. Nessuna istituzione sembra poterli disciplinare, né le gratificazioni ricevute orientarli al compiacimento o alla ricerca di obiettivi premianti.

E quando scattano contro il terrorista armato, come centrometristi allo start, non valutano né pensano nulla, rispondono al presente dell’accadimento dove la capacità d’azione si attua senza essere segnata da intenzionalità, valori, obiettivi, cioè senza che l’azione sia presa in carico da un soggetto responsabile. I ragazzi agiscono e il circuito tra competenze acquisite (assistere un ferito) e occasione per metterle in atto determina un rapporto dell’allora e dell’ora che fa della formazione semmai la via per la creazione di una potenza, piuttosto che il fulcro del disciplinamento delle anime e dei corpi.

In Mystic River (2003) l’amicizia dei tre ragazzi era segnata all’origine da un evento tragico (la violenza su uno dei tre) che incideva drammaticamente sulle loro vite, le vincolava ad una necessità che le privava di ogni libertà: l’azione non si liberava dal senso di colpa, tornava tragicamente su se stessa attraverso il crimine e il versamento di sangue. Qui nulla di tutto questo, quel tragico è stato espunto, l’evento drammatico, ora collocato nel finale, apre al commedico: vita, festa, riconoscimento. Non solo viene abbandonato il tratto infernale di una vita vincolata alla necessità (American Sniper), ma anche quello legato alla drammaticità della scelta (Gran Torino, 2008).

Qui la vita è liberata in un modo imprevisto. Nell’anonimato di una città dell’interno della California, i tre ragazzi non sono né soggetti alla necessità (destino) né posti davanti a scelte (libertà), ma collocati nel vuoto di una potenza che casualmente si attualizza (cambio vagone alla ricerca del wi-fi) e casualmente lo fa in modo felice (il mitra del terrorista si inceppa).

Se l’America ha incarnato da sempre la tradizione profonda dell’ontologia della prassi, e lo ha fatto nel pensiero (pragmatismo) e nell’arte, in primis nel cinema (il cinema d’azione), Eastwood ha operato un lavoro profondo di destrutturazione di tale ontologia all’interno della prassi stessa, fino a giungere al “candore” di Attacco al treno, dove senza alcuno sguardo morale, né ideale, né valoriale, nell’ordinarietà delle forme di vita occidentali, l’azione diventa solo la forma contingente di emersione dell’essere, di attuazione di una potenza, incatturabile da ogni istituzione. Un essere irriducibile alla prassi, ma la cui irriducibilità si misura all’interno della prassi stessa, nello scheletro dell’immagine-azione. È da qui che scaturiscono gli equivoci della critica: si guarda allo scheletro senza sentire e vedere ciò che lo abita.

Il tratto neorealistico, meglio rosselliniano, del film, risiede in questo e solo in questo: nel destituire il concatenamento della prassi, abbandonandosi ad una libertà dello sguardo e della messa in scena senza precedenti per un film hollywoodiano. Una nuova liberazione dell’Europa dal male, raccontata dalla “distanza” americana, e dove risuona una libertà dello stile, che usa come intercessori non più soldati smarriti, ma personaggi senza vincoli e senza carattere, che affidano il racconto delle loro vite a semplici selfie.

Libertà e rischio che culminano nella scelta di utilizzare attori non professionisti, di far interpretare ad ognuno il proprio ruolo. Ciò significa una cosa sola, non solo evitare di aderire ai dispositivi che reggono la finzione, all’incarnazione del ruolo, ma far aderire quest’ultimo ad un uomo senza qualità né particolarità (rinunciando al personaggio). Riportare tutto alla trasparenza opaca di una vita ricondotta all’amicizia e alla fratellanza: una vita senza padri (assenti, non li vediamo mai), e dove il ruolo del padre è assunto da istituzioni che rimangono estranee.

Qui domina la fratellanza naturale, senza patti né padri, dunque. Qui l’eroe per caso non è individuale ma plurale: gli eroi sono tre. Differenza non di poco conto con i due film precedenti (American Sniper e Sully). L’essere amici, l’iscriversi in una orizzontalità di relazione (senza più la verticalità “regale” dello Sean Penn di Mystic River, che segnava il rapporto tra i tre amici) rende i tre ragazzi californiani pari nel loro essere, al di là delle differenti capacità d’azione. Ecco il punto: i ragazzi sono qualcosa che prescinde dalla loro azione, dalla loro formazione, dalla loro ideologia. E Eastwood li filma per quello che sono, qualcosa che definisce la condizione quasi-naturale della loro presenza al mondo e che mina dall’interno l’azione e la sua dimensione semantica e ideologica. Sono personaggi “innocenti”, che attraversano indenni e incoscienti gli orrori della storia (come ricorda loro la guida tedesca, parlando del nazismo), e che appartengono alla galleria dei grandi personaggi “candidi” della letteratura americana, e di Melville in particolare (da Bartleby a Billy Budd, che di “coscienza di sé sembrava averne punta o poca”).

Non esenti da un tratto implicito di romance, questi personaggi e l’intero film operano una genealogia della coscienza americana che arriva al punto dove tale coscienza giunge all’incoscienza (senza la quale non ci sarebbe stato l’assalto al terrorista), dove l’atto coincide con la potenza, e quest’ultima con l’essere stesso. E azione responsabile, volontà, libertà, valore, morale, ideologia rimangono parole vuote, sospese. Sospensione che destruttura tutto un mondo, che solo una critica tesa all’addomesticamento del film, a riportarlo a regime, ha avuto interesse a riproporre. Il punto di radicalità di 15:17 – Attacco al treno è tale da far sembrare tutto il resto del cinema d’azione (in primis americano) una stanca riproposizione di cliché, tesi ad assicurare che nulla cambi nel rapporto tra forme espressive, spettatore e mondo.

Eastwood testimonia che questo rapporto può essere cambiato, e una critica non rinunciataria deve saperlo riconoscere e affermare con forza.

Riferimenti bibliografici
H. Melville, Bartleby lo scrivano, Einaudi, Torino 2006. 
Id., Billy Budd, Bompiani, Milano 2012. 

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