Il Seminario XVIII di Jacques Lacan, Di un discorso che non sarebbe del sembiante, è particolare per diversi motivi. Con le sue sole dieci lezioni, tutte concentrate nel 1971, è di gran lunga il più breve tenuto fino a quel momento dallo psicoanalista francese. Nel marzo di quello stesso anno, oltre tutto, subisce una lunga interruzione, riaprendosi solo due mesi dopo con la notoriamente criptica lezione VI, Lituraterra. Più di ogni altra cosa però, questo seminario spicca per l’inflessibile posizione assunta da Lacan nei confronti dello strutturalismo, il movimento filosofico dominante della Francia novecentesca a cui lui stesso era stato ascritto dai suoi contemporanei: una posizione che non è né di adesione, né di confronto, ma di radicale rigetto. Cos’è, a questo punto del suo insegnamento, lo strutturalismo per Lacan? Poco più che un’«invenzione giornalistica», dice lui, un termine vuoto coniato dalla cronaca oziosa dell’ambiente universitario o, posto senza mezzi termini, «una malattia dell’epoca» (Lacan 2010, pp. 35, 140).
Che quella di Lacan non sia una semplice boutade ma una vera e propria sentenza ce lo dimostra il fatto che la parola “strutturalismo” non verrà mai più pronunciata nei seminari successivi (ben nove, se ci atteniamo a un conteggio onesto). A fare ritorno, semmai, sarà l’insofferenza di quest’ultimo nei confronti di chi pretende di ridurre il problema del linguaggio a un oggetto tra gli altri, a una disciplina da propinare agli studenti (i linguisti) o a un criterio di verità con il quale mettere alla prova la tenuta del reale (il positivismo logico). Certo, l’inconscio è e rimane strutturato come un linguaggio. Le sue formazioni (sintomi, sogni, lapsus, motti di spirito) devono essere interpretate alla luce del meccanismo di articolazione della catena significante. Alla fine, Lacan si conferma a modo suo un linguista, benché con un caveat: è un grave errore credere – come fa proprio la linguistica universitaria – che questo significante sia stato forgiato dall’uomo, che sia un giocattolo teorico tra i tanti. Se così fosse, si darebbe la possibilità di un metalinguaggio, di un linguaggio che possa dire tutta la verità su se stesso, e dunque sulla condizione umana in quanto tale.
Lacan è sempre stato chiarissimo su questo. Non è la ragione umana a coniare il significante. Esso è già lì, prima della nostra venuta al mondo. Non sappiamo bene come e quando ciò sia avvenuto, eppure è così. E, anzi, se c’è inconscio è proprio perché c’è il significante, e non viceversa. Il corollario di una simile tesi (che Lacan per primo non esitava a definire spudoratamente “creazionista”) è prevedibile: se il significante precede la specie umana e scinde la coscienza dall’inconscio, allora l’animale umano non è un animale parlante, quanto piuttosto un animale parlato – si pensi alla famosa definizione dell’inconscio come ça parle, qualcosa che parla attraverso e a discapito di noi. Non per nulla, pochi anni dopo il Seminario XVIII, Lacan ricorrerà a un’immagine alquanto grottesca per descrivere il processo irreversibile con cui il linguaggio incide la carne del suo ospite: «Quando il Verbo si incarna», quando la parola penetra la vita, l’uomo «non è più felice, non assomiglia più a un cagnolino che scodinzola e nemmeno a uno scimmione che si masturba. Non assomiglia più a niente. È devastato dal Verbo» (Lacan 2006, p. 104).
Più che un mezzo di delucidazione, il tratto che eleva la nostra specie al di sopra degli altri (presuntamente) ottusi animali, il linguaggio perverte l’uomo fino a farne una bizzarra creatura che parla senza sapere esattamente ciò che dice. Per rendersene conto, non ci sarebbe bisogno nemmeno di scomodare troppo la psicoanalisi. L’esperienza quotidiana ci insegna che lo scarto tra ciò che si dice e ciò che si vorrebbe dire rimane incolmabile. O ci mancano le parole, o diciamo più di quanto vorremmo dire. In entrambi i casi, i conti non tornano, il malinteso sì. La soggettività umana, che Lacan rinomina spesso il “parlessere”, indica proprio questo ininterrotto tentativo di venire a patti con la presenza ingombrante del linguaggio, con “un di più” che, nel momento esatto in cui tocca il corpo, si capovolge in un “meno”, una mancanza da cui scaturiscono equivoci e sofferenze.
Il linguaggio non è trasparente o neutrale, dunque. E la lingua non è al servizio di chi parla. Eppure, di linguaggio e di struttura il Novecento francese se ne è riempito la bocca, eccome. E questo già da prima di Lacan. Dalla letteratura all’antropologia, dalla logica alla filosofia, nessun altro secolo ha mai prodotto una così decisa convergenza multidisciplinare su un medesimo e così drammatico argomento. Un noto adagio dice che prendiamo coscienza di una parte del nostro corpo solo quando quest’ultima ci duole. Finché le cose vanno bene, fegato, milza, polmoni e altri organi che compongono il nostro organismo se ne stanno in silenzio. Sappiamo che sono lì, e tuttavia non li sentiamo. È solo quando iniziano a darci problemi che notiamo effettivamente la loro presenza.
Ecco, la filosofia francese del XX secolo forse non ha fatto che questo: d’un tratto, si è accorta che il mansueto strumento chiamato linguaggio non era poi così mansueto, che la sua presenza era fonte di scompiglio. Più di qualcuno, nel corso di questo lungo secolo che ci siamo ormai lasciati alle spalle, ha persino osato pensare la possibilità di un’emancipazione dal linguaggio o, se non altro, l’ipotesi di approdare a un linguaggio alternativo, che riducesse il caos che esso apporta alle nostre vite.
Tutte queste vicende, e non solo, ci vengono mirabilmente raccontate da Felice Cimatti in La vita dei segni. Il linguaggio e i corpi nella filosofia francese del ‘900 (Il Melangolo), un libro che si fa carico del difficile compito di narrare una storia che può sembrare vecchia attraverso un punto di vista nuovo. Si tratta di un saggio che fa esistere lo strutturalismo di cui Lacan dichiarava l’inesistenza, e questo grazie a un escamotage di pregio: vedendovi non una corrente omogenea di autori che pretendono a modo loro di addomesticare il linguaggio, ma una densa, secolare stagione del pensiero europeo impegnata a fare i conti con il trauma del linguaggio.
Il primo aspetto originale, al riguardo, è che ad aprire questo così eterogeneo corso è chi strutturalista non lo era e non lo sarebbe stato di certo, e cioè Henri Bergson, che con il Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) pone le basi per il grande fenomeno dei decenni a venire: la diffidenza verso il linguaggio. Diffidenza è un termine che va preso con le pinze. Non si tratta della tipica posizione scettica di chi nega valore di verità a un fenomeno. Con il linguaggio, questo atteggiamento negativo non è possibile. Esso è fin troppo radicato in noi, talmente impelagato nel nostro essere (del resto, come ribadiva proprio Lacan, cos’è l’essere se non un fatto di linguaggio?) da impedire sin da subito qualsiasi tentativo di distanziamento.
Gilles Deleuze dirà che i segni di cui si compone il linguaggio non dominano solo il piano della comunicazione, ma scolpiscono anche il nostro modo di sentire e di pensare. E Foucault lo seguirà portando allo stremo l’insight di Bergson: linguaggio è sinonimo di violenza, comando, prescrizione, la faccia feroce seppur invisibile della società del controllo. Parlare è negare la fatticità del corpo per sostituirla con un fantoccio artificiale. Credere ciecamente nel linguaggio significa arrendersi al dogma del soggetto – «ventriloquo» (Cimatti 2023, p. 189), a una soggettività paradossale eppure reale che si riduce a oggetto passivo del linguaggio. A discapito dei nostri sforzi, il linguaggio ci rimane attaccato alle suole o, per meglio dire, siamo noi che rimaniamo attaccati alle suole del linguaggio.
In che modo diffidarne dunque? La risposta di Bergson sarebbe stata grosso modo questa: rendendosi conto che esso è un ostacolo che snatura la vita interiore, che antepone la distanza dello spazio alla prossimità della durata e, così facendo, ci allontana irrimediabilmente dal contatto diretto con la realtà. Essere diffidenti significa non credere fino in fondo alla promessa del linguaggio di rivelarci il nocciolo del reale, di condurci alle cose stesse. È un po’ la stessa questione sollevata da Paul Valéry, altro personaggio insospettabile che Cimatti integra nella sua storia: come fidarsi di qualcosa che si offre di fare ordine nel mondo, quando questo qualcosa è quanto di più generico, impreciso e approssimativo che ci sia? Basti pensare alla natura contraddittoria dell’“io”, che, come nota Valery, pretende di porsi come la parola individuale per eccellenza, eppure vale per tutti (ivi, p. 57).
In questo senso, rettifica Cimatti, la stagione strutturalista non è trascorsa come un percorso a senso unico, ma tutt’al più come un bivio, una biforcazione in cui si sono alternati coloro che hanno decretato il linguaggio un vicolo cieco (la sua “maledizione” è coestensiva alla soggettività, disfarsi del linguaggio equivale a disfarsi del soggetto) e coloro che hanno provato a formulare un modo originale di convivere con la diffidenza verso di esso. Le proposte sono state tante (l’inumano assoluto dell’Arte di Baudrillard, il neutro di Blanchot, la “gioia” della lingua di Barthes, la non-identitarietà di Deleuze, per citarne alcuni). La ferita rimane. Il linguaggio, nota opportunamente Cimatti, è simile al parassita di Serres, al «quasi-oggetto» il cui essere «coincide con il suo essere relazionale» (ivi, p. 399). E come dargli torto? Del resto, se l’Homo sapiens è l’animale parlante per definizione, dove comincia il linguaggio e dove comincia l’uomo? Le due cose sono davvero distinte come ci piace credere ancora oggi (il linguaggio-modulo del cognitivismo, il circuito funzionale delle neuroscienze) oppure esistono in quanto inevitabilmente invischiate?
La storia della filosofia, troppo impegnata nel tentativo di svecchiarsi a tutti i costi, ci invita a lasciarci alle spalle il passato per abbracciare la novità anticipatrice del futuro. Peccato che, essa stessa prima di tutte, si dimentichi talvolta del peggiore dei verdetti della psicoanalisi: il rimosso ritorna, e ritorna proprio quando crediamo di aver sepolto il passato una volta per tutte. Sul finire degli anni settanta, Lacan ci avvertiva del pericolo incombente della segregazione, una piaga «planetaria», orizzontale, il cui obiettivo è tenere separate «masse umane destinate allo stesso spazio» (Lacan 2013, pp. 358-359). In un’epoca in cui le parole sembrano sollevare più muri di quanti esse siano in grado di abbattere, e in cui la valorizzazione delle differenze si riduce a un mero criterio di discorso (come se il semplice fatto di dichiarare ciò che riteniamo di essere ci rendesse effettivamente più liberi), la diffidenza verso la puntualità allettante del linguaggio è forse la prima e più urgente delle strategie per cominciare a riflettere sulla possibilità concreta della convivenza.
Riferimenti bibliografici
J. Lacan, Il trionfo della religione, in De Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione, Einaudi, Torino 2006.
Id., Il seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante 1971, Einaudi, Torino 2010.
Id., Allocuzione sulle psicosi infantili, in Altri scritti, Einaudi, Torino 2013.
Felice Cimatti, La vita dei segni. Il linguaggio e i corpi nella filosofia francese del ‘900, Il Melangolo, Genova 2023.