Nel suo personale e sentito omaggio alla figura di Genette Gianfranco Marrone sottolinea come, grazie alla lezione dello studioso, «la letteratura “in quanto tale” riesce a determinare chiaramente il suo ruolo culturale e i suoi confini sociali (è una prassi critica consapevole delle forme linguistiche e delle idee ricevute), sapendo al tempo stesso farsi modello esemplare per la comprensione e la gestione di ulteriori forme comunicative, dal giornalismo ai fumetti, dalla pubblicità alla televisione: tutte cose di cui lui non si è mai occupato, pur avendo donato a chi se ne trastulla un grosso pacchetto di idee, tipologie, schemi di lettura, consuetudini ermeneutiche» (Marrone 2018).
Nel chiudere il breve ritratto di uno degli intellettuali più irriverenti della postmodernità, Marrone si rammarica del fatto che non sia riuscito a «darsi dei successori affidabili» (ibidem), eppure sfogliando le pagine de L’immaginario polimorfico di Massimo Fusillo si ha netta l’impressione di trovarsi di fronte a “nuovi palinsesti”, ovvero a un poderoso sforzo di riconcettualizzazione — e in taluni casi perfino di superamento — di «quel grosso pacchetto di idee, tipologie, schemi di lettura, consuetudini ermeneutiche», alla luce del decisivo cambio di paradigma degli anni zero.
Consapevole di aver ereditato dai maestri della critica letteraria un vasto armamentario di regole e metodi di ricerca, Fusillo procede a una sistematica rifondazione del suo sguardo di studioso attraverso il piacere della contaminazione (di forme, codici, linguaggi), che lo conduce ad attraversare territori diversi (il teatro, il melodramma, il cinema, le arti visive), nella ferma convinzione che la comparatistica non possa fare a meno di interrogarsi sui principi di porosità e fluidità caratteristici dell’età contemporanea e non possa altresì accontentarsi di imbrigliare le opere (di qualsiasi tipo o genere) dentro confini chiusi.
In quest’ottica ibrida i testi «non sono essenze immutabili, ma fasci di potenzialità che si realizzano e si espandono a seconda di alcune componenti fondamentali: lettori, pubblici, […] artisti, adattatori» (Fusillo 2019, p. 9); è nel segno della potenzialità e della reversibilità che indaga l’attuale mediascape, intercettando i processi che rispondono alla logica della variazione e le «costanti transculturali» (ivi, p. 10) che determinano il proliferare di una testualità diffusa, amplificata attraverso la potente cassa di risonanza del digitale. Dentro questo magnetico campo di tensioni cade ogni rigida barriera disciplinare e l’interpretazione si muove in direzioni ostinate e contrarie, alla ricerca di “soglie” (altro termine di matrice genettiana) e fenomeni di reenactment di temi e motivi.
Il volume, grazie alla cura editoriale di Mirko Lino, lascia emergere quella che con Longino possiamo dire «la sintassi della passione» di Fusillo, cioè il pedinamento di nuclei forti (il mito, il doppio, il camp, l’eros, solo per indicare i più radicali), declinati attraverso un tappeto di esempi che consentono la progressiva messa a fuoco dell’asse centrale del discorso. A cucire insieme la fitta trama di questa indispensabile mappa dell’immaginario («concetto ampio e aperto, in cui si incrociano strategie espressive, linguaggi artistici, e modelli culturali», ivi, p. 8) è proprio l’aggettivo «polimorfico», che richiama con grande evidenza la «categoria della metamorfosi come modello critico sufficientemente duttile per poter esprimere la disseminazione intermediale» (ibidem) del tempo presente nonché «adatto a formalizzare la dialettica fra continuità e cesure, fra permanenza e variazione» (ivi, p. 55).
La «traducibilità infinita» (ivi, p. 9) dell’immaginario è dunque la chiave di volta delle analisi che animano questo studio, da intendersi come una sorta di antologia di atti critici, che in questa cornice trovano nuova compiutezza e nuovo slancio a partire da una prassi ermeneutica votata all’inarcamento e alla (auto)confessione. Quel che sorprende, infatti, è il costante pedinamento di linee di gusto che incarnano precise svolte epistemologiche ma valgono anche come dichiarazione di “affetti” e percorsi, rimotivati da acquisizioni teoriche e riscaldati da quella che l’autore non esita a definire la sua «passione divorante» (ivi, p. 9), il cinema. Pur dedicando uguali attenzioni alla letteratura e al teatro, con puntuali affondi sul versante melodrammatico (altra sua “magnifica ossessione”), appare evidente fin dalle prime battute come la decima musa rappresenti l’orizzonte in cui tutte le pulsioni e le questioni si sciolgono, merito della ontologica natura sincretica del cinematografo ma anche di uno sguardo “cannibalico”, vorace, mai sazio.
Non a caso la sezione inaugurale del volume, dedicata a istanze di poetica, si apre con un paragrafo intitolato «Stavo solo facendo del cinema», che richiama uno dei casi più felici di novellizzazione hollywoodiana — il romanzo Gli ultimi fuochi di Scott Fitzgerald e la sua traduzione filmica per mano di Elia Kazan — ma si risolva poi nella appassionata perorazione dello statuto auratico del cinema, fondato sulla «regressione visionaria e voyeuristica» (ivi, p. 16) dello spettatore (sublimata attraverso un intenso passo del Viaggio al termine della notte di Céline) e sul nesso inscindibile fra sguardo, corpo e immagine.
La seconda parte del libro, di fatto la più consistente per via della formazione classicista dell’autore stemperata negli anni da interessi fervidamente orientati nel campo del contemporaneo (e della ricezione moderna dell’antico), muove alla ricerca di concreti esempi di “riscritture” del mito. Fusillo parte da una concezione aperta del lemma “classico” e dall’individuazione di precise coordinate metamorfiche: «Il classico si trasforma così in un patrimonio collettivo da rimontare liberamente, il che ci svela tutto il doppio legame che le arti contemporanee hanno con il passato: da un lato presenza ossessiva in quanto icona, oggetto di culto, feticcio; dall’altro materiale da attualizzare, sovvertire, decostruire» (ivi, p. 25).
Su questa convinzione intreccia un arabesco di casi e letture che, senza trascurare il versante della scena drammaturgica e operistica (cui sono dedicate pagine di mirabile intensità, come nel caso delle Troiane di Salmon), trova gli esiti più compiuti in una lunga schiera di film, che spaziano dal côté sperimentale e d’autore (Pasolini, Jancšo, Cavani, Von Trier, Martone e molti altri) a forme popolari come il peplum o lo sceneggiato televisivo. A tenere insieme opere tanto diverse per stile e ispirazione è la capacità del cinema di tradurre lo spirito della tragedia, secondo strategie compositive che Fusillo individua con grande lucidità:
«È proprio il marcato effetto di realtà del cinema, il suo enorme potere di visualizzazione, che spinge le versioni cinematografiche della tragedia greca verso due estremi: da un lato la ricostruzione archeologica dell’antico, che suona spesso poco credibile e inevitabilmente kitsch; dall’altro appunto la modernizzazione, che anche nel teatro di regia degli ultimi decenni è diventata una convenzione facile. Fortunatamente la maggior parte dei film mitici evitano questa alternativa drastica, spesso tematizzando direttamente il contrappunto e il conflitto fra mito e realtà» (ivi, p. 74).
La terza sezione del volume si fa carico di rintracciare una serie di Temi e narrazioni che ruotano intorno al motivo dell’«identità sdoppiata/decostruita» (ivi, p. 9) e che esplorano — come già a proposito di alcune riscritture dell’antico — il versante dionisiaco, fino a spingersi sul crinale della mostruosità e dell’animalità, espressioni radicali e vibranti di un umanesimo espanso. Anche in questo caso il cinema si fa specchio di pulsioni arcaiche e quasi senza tempo: si pensi alla familiarità del medium con il doppio («Lo schermo trasmette infatti al pubblico il “doppio” — o se si vuole il riflesso, lo spettro, l’ombra — di qualcosa avvenuto prima e altrove […], con una eccezionale ricchezza percettiva, ma anche con una forte evanescenza», ivi, p. 217), che si riverbera in molte accezioni possibili (il sosia, il mostro, la maschera), tutte contraddistinte da peculiari pattern rappresentativi.
Non sfuggono a questa tassonomia di corpi imprevisti il regime del desiderio, investigato a partire dalle smanie libertine di un Settecento rimediato ad arte da Frears e Forman (attraverso Laclos e Muller), e «l’ossessione dell’onore» (ivi, p. 268), che ritorna secondo il cliché del duello nelle pellicole di Scott e Spielberg (I duellanti del 1977 da Conrad e Duel del 1971 da Matheson): in questi film, segnati da retoriche di sguardo per lo più agli antipodi, il topos medievale trova parossistici investimenti emotivi e una cifra stilistica che sfrutta a pieno le qualità del dispositivo.
Nell’accogliere «l’irruzione di un’alterità mostruosa» (ivi, p. 271) il cinema rivela il suo potere di incantamento, nonché la capacità di dar corpo e forma ai fantasmi letterari: lungi dal riproporre l’annosa questione relativa alla presunta superiorità del verbale sul visuale, Fusillo ribadisce la feconda tensione fra i codici e dichiara la propria fiducia nella vitalità metamorfica delle immagini in movimento. Come leggere altrimenti uno degli episodi più intriganti di Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo – Il ladro di fulmini (2010 di Cris Columbus), primo capitolo della saga fantasy a sfondo mitologico tratta dall’omonimo ciclo scritto da Rick Riordan, durante il quale una conturbante Uma Thurman nei panni di Medusa si specchia sulla superficie metallica di uno smartphone e si lascia così decapitare dal giovane eroe Percy? A contatto con i bagliori delle nuove tecnologie il cinema (e il mito) mettono in campo nuove strategie e rinnovano l’equilibrio «tanto precario quanto affascinante fra metamorfosi e identità, flessibilità e permanenza, invenzione e riscrittura» (ivi, p. 72).
Riferimenti bibliografici
M. Fusillo, L’immaginario polimorfico fra letteratura, teatro e cinema, Pellegrini Editore, Cosenza 2019.
G. Genette, Palinsesti, Einaudi, Torino 1997.
G. Marrone, Gérard Genette, palinsesto della narratologia, Doppiozero, 2018.