La sala colloqui di un carcere in Argentina, nel 1972. Carlos Robledo Puch, 19 anni, è sotto processo per rapine, furti, stupri e almeno undici omicidi. Di fronte a lui i genitori lo pregano di chiedere l’infermità mentale, per sperare in una riduzione di pena: “Volete che mi dichiari pazzo?” chiede il ragazzo; “Ti sembra che una persona normale avrebbe fatto quello che tu hai fatto?” ribatte la madre; Carlos rimane un attimo in silenzio, prima di rispondere, con calma e sicurezza: “Si”. Stacco. È in questo dialogo che sta una delle linee portanti di L’angelo del crimine (2018) di Luis Ortega, figlio cineasta di una delle icone del pop melodico argentino, Ramon “Palito” Ortega, famoso proprio in quel decennio inquieto e tragico, che si apre con uno dei casi criminali più inquietanti della storia argentina, quello appunto di Robledo Puch, l’angelo della morte, un ragazzo come tanti, bello e solare, capace di uccidere torturare e stuprare senza alcuna remora morale.

La vicenda di Puch apre un decennio dove la violenza diventa generalizzata, si trasforma in un’arma di Stato, prima con il governo sanguinario di Isabelita Peron, poi con la giunta militare che prese il controllo del Paese dal 1976 al 1982. Il processo al pluriomicida di neanche vent’anni domina i giornali dell’epoca. Il caso diventa immediatamente un caso mediatico di rilevanza nazionale. La giovane età dell’imputato, la sua assoluta mancanza di pentimento, la bellezza del suo viso sono gli elementi che costruiscono la leggenda. La sua condanna a vita sarà un precedente importante nel sistema giudiziario argentino. Ortega riprende tutto questo e a distanza di anni (mentre il vero Robledo Puch si trova ancora in carcere scontando la sua condanna a vita), racconta la storia di Puch come una sorta di visione pop e lisergica, come un sogno allucinato che si apre e si chiude con una danza, con Carlos che da solo balla in un appartamento vuoto.

Una danza in un appartamento vuoto. Geometrica, simmetrica, in campo medio; Ortega inquadra i gesti di Robledo Puch all’interno di una messa in scena che non cerca né empatia né partecipazione, ma neanche la fredda distanza di uno sguardo. Il ritratto di un serial killer è sempre il ritratto di altro, di un mondo in cui quella violenza è possibile. Non è infrequente incontrare, nel cinema argentino (e latinoamericano) contemporaneo, forme della violenza; quasi che lo sguardo di molti registi si fosse concentrato sulle figure che concentrano in sé le dinamiche politiche e sociali di un continente sempre più lacerato da conflitti.

Dal cinema di Reygadas in Messico a quello di Larrain in Chile, passando per film argentini recenti, come Animal (2018) di Armando Bo, La cordillera (2017) di Santiago Mitre, l’analisi della violenza, o la sua rappresentazione diventa spesso lo strumento di un percorso fenomenologico, in cui il singolo si fa emblema, concentrato, analogon della violenza collettiva. Tra la violenza e il mondo c’è sempre un rapporto, via via declinato secondo sguardi differenti. Eppure mai come ora, il cinema contemporaneo sembra essere affascinato dalla violenza senza scopo, senza origine, senza ribellione.

Siamo lontani qui dunque dall’immagine del crimine come svelamento della malattia della società (come poteva essere nel cinema italiano degli anni settanta: basti pensare ai film di Carlo Lizzani, ma anche al cinema politico di Bellocchio). Siamo lontani anche dalla rappresentazione del serial killer come figura del male assoluto (e per questo affascinante), tipica di molto cinema statunitense; o dai tanti ribelli senza causa che provano a infrangere le catene di un pensiero dominante che li imprigiona.

Nel film di Ortega non c’è traccia di analisi sociologiche, né di interpretazioni politiche, né di letture estetiche o metafisiche. La violenza del ragazzino dalla faccia d’angelo non ha motivazioni evidenti, non c’è un controcampo in cui la follia della violenza di Stato emerga con evidenza. Eppure è tutto lì, essa avviene, per caso a volte (come nel primo omicidio), più spesso per pura inerzia, come se si trattasse di un gesto normale, parte di una esistenza in cui non esistono vincoli o impedimenti etici.

“Ti sembra normale quello che hai fatto?” “Sì”. Ecco, è qui che si gioca il senso e la posizione dello sguardo. Forse anche della sua insostenibilità. Ortega si mantiene in una posizione intermedia, né troppo vicino ai corpi, né troppo lontano. Predilige inquadrature simmetriche che sembrano immergere i personaggi in un mondo astratto, isolati da un mondo che è fatto di case vuote, di locali notturni, di strade deserte. Quello del regista argentino è un cinema senza relazioni, senza contatti tra i corpi, deserto.

Deserto nonostante tutto, nonostante i colori pop di quegli anni, nonostante il tappeto costante di una colonna sonora costruita da pezzi rock in lingua spagnola degli anni sessanta e settanta. Deserto nonostante la cura delle inquadrature e la regia attenta. Deserto appunto perché mostra un corpo che è privo di contatti col mondo. Lo sguardo di Robledo Puch è uno sguardo desiderante (desidera il suo amico e compagno di crimini, desidera il padre di quest’ultimo), ma impotente perché non si avvicina nemmeno ai suoi oggetti del desiderio.

Corpo senza estensioni, senza contatto col mondo, egli fa della danza l’unico movimento di esplorazione dello spazio, di espressione di vita. E nelle già citate sequenze di danza (a cui se ne aggiunge una, puramente onirica), Robledo Puch è solo, in un appartamento vuoto. È in questa solitudine, in questo scollamento dei corpi dalle relazioni umane che sta l’inquietudine del film di Ortega, o perlomeno la sua traccia.

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