Le verità di Hirokazu Kore’eda è quello che si direbbe un film sul cinema: è un’attrice la protagonista principale (Catherine Deneuve), sua figlia (Juliette Binoche) una sceneggiatrice che si è trasferita a New York, dove vive con la sua bambina e suo marito (Ethan Hawk), anche lui attore, ma di una serie tv poco fortunata.

La “famigliola” (così apostrofa i suoi ospiti la padrona di casa) arriva a Parigi per festeggiare l’uscita del volume che raccoglie le memorie della grande attrice (intitolato come il film, Le verità) e visitare il set in cui è impegnata. Un film nel film racconta, questa volta, la storia fantascientifica di una giovane donna malata che, per non morire, è costretta a vivere nello Spazio – dove il tempo si ferma per lei – dovendo abbandonare però suo marito e la sua bambina, quando è ancora piccola. Ogni sette anni la donna torna a far visita alla figlia: la vede così diventare prima un’adolescente, poi una giovane donna, infine una anziana signora. Quest’ultima parte è assegnata a Fabienne, diva del cinema di altri tempi, che stenta ad accettare di dover semplicemente affiancare una giovane e bellissima attrice emergente, destinata a prendere il suo posto nell’olimpo del cinema francese.

Le verità è dunque anche un film sul senso dell’essere donna, madre, diva: o, il che è lo stesso, essere Catherine Deneuve. Attraverso di lei, Kore’eda guarda al grande cinema europeo, francese in particolare, nato con la Nouvelle Vague e gira un film alla maniera di Eric Rohmer o Olivier Assayas. Rinuncia così, quasi del tutto, alla cifra stilistica che il pubblico occidentale ha conosciuto soprattutto grazie al suo film precedente Un affare di famiglia. Ed in effetti questo cambio di ambientazione è ciò che prima di ogni altra cosa salta all’occhio, ferma restando la volontà di raccontare, qui come là, un gruppo di famiglia, in tutte le sfumature che questo può assumere.

Ma non basta: Le verità è, infatti, un lavoro sulle forme generiche del cinema classico, che consiste qui soprattutto in un intreccio difficile, quanto riuscito, fra il registro melodrammatico e quello commedico, attorno ai quali si costruisce la narrazione. Del melodramma ricorrono nel film alcuni elementi riconoscibili: anzitutto l’ambientazione borghese e per certi versi decadente, rappresentativa di un mondo forse da sempre in crisi. Incomprensioni e non detti sono ciò che rende difficili tutti i rapporti umani: quelli lavorativi e d’amicizia, i rapporti di coppia e quelli genitoriali.

Ma è attorno al rapporto complicato fra una madre e una figlia che ruota soprattutto la struttura melodrammatica del film: la prima troppo presa da sé e dai propri successi per occuparsi di chiunque altro, la seconda costretta a sua volta a fuggire da una madre tanto assente, quanto ingombrate. È quel rapporto, infatti, che porta con sé i fantasmi di un passato doloroso, evocato a più riprese: una donna scomparsa, un’attrice, un’amica e allo stesso tempo una rivale di Fabienne, morta in circostanze misteriose di cui Fabienne stessa sembra – almeno nei racconti che della vicenda fa sua figlia – moralmente responsabile.

Il grande pregio del film, però, è inserire all’interno di questo schema alcuni bellissimi spiragli commedici: quelli che permettono a quest’ultimo lavoro di Kore’eda di essere, oltre che un film sul cinema, un grande esempio di come il cinema – quello vero – non perda mai il contatto con la vita – quella vera – al di là di una messa in scena esibita o addirittura raddoppiata, come in questo caso. È la commedia che si nasconde dietro certi gesti quotidiani ripetuti, abitudini, ritualità, piccole ossessioni che fanno di una vita qualunque, la “nostra” vita. Fabienne, per esempio, ama bere il tè, meglio anzi ha piacere che qualcuno glielo prepari, anche semplicemente per poter dire che è sempre troppo caldo o troppo poco.

E poi ci sono le passeggiate sola con il suo cane, fino al ristorante cinese dove l’attrice ha preso ad andare regolarmente. È una delle sequenze più belle del film: Catherine Deneuve nel suo cappotto leopardato, al guinzaglio un cagnetto al quale la donna affida il ritmo e la traiettoria del suo incedere. La macchina da presa li anticipa in un lungo piano-sequenza che continua, più avanti, nei titoli di testa. Si tratta di uno di quei momenti in cui il film sembra quasi rinunciare alla messa in scena e cedere all’improvvisazione, a quei piccoli attimi in cui il cinema e la vita addirittura possono arrivare a confondersi, come nella bellissima scena di ballo, in cui tutti i personaggi del film si ritrovano a essere coinvolti.

Il passaggio a Occidente coincide nelle intenzioni del regista con l’occasione per rendere omaggio al cinema tutto e riflettere su di esso come ha fatto tanto cinema moderno. Si sdoppia Kore’eda che qui si maschera da regista francese, come si duplica il film che contiene di sé un altro film. Non a caso forse Le verità si chiude con un richiamo più o meno a La donna che visse due volte: perché il cinema è sempre almeno doppio, è verità e menzogna insieme.

https://www.youtube.com/watch?v=3rk54Nwi3sE

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