Un interrogativo viene riproposto, incessantemente, puntata dopo puntata, nella fortunata serie Homeland (Gordon e Gansa, 2011-in produzione), ossia, se esistano limiti morali nella lotta serrata per la salvaguardia della democrazia statunitense. Alla domanda verrebbe da rispondere immediatamente e d’istinto: certo che no. Chi solleverebbe dubbi sull’esigenza di interrogare dei sospettati, anche a costo di torturarne qualcuno, quando si è sotto attacco da parte dell’intero apparato terroristico mondiale? O sulla ragionevole necessità di dovere sacrificare un paio di morti innocenti, a fronte del rischio, paventato ed immanente rappresentato dalla concreta possibilità che vi siano infiltrati dei jihadisti all’interno degli stessi apparati di intelligence americani? Una domanda che si rinnova stagione dopo stagione (si attende l’ottava ed ultima il prossimo autunno) e che si coagula attorno alla frenetica caccia al terrorista. L’analista della CIA protagonista di questa lunga serie, per quanto ritenuta ella stessa turbolenta e problematica dai suoi capi, tende costantemente a dilatare fino all’estremo principi morali e di investigazione che sembrano ubbidire alla logica di evitare l’emersione di altre, più urgenti e drammatiche, questioni morali.

È lo stesso limite, etico, prima che giuridico, che non pochi teorici del diritto propongono di superare, anche attraverso il tentativo di legalizzare le pratiche di tortura, e che è al centro dell’ultimo volume di Jesús García Cívico: La tortura. Aspectos jurídicos, sociales y estético-culturales (2019). Un contributo che arricchisce una già voluminosa letteratura sulle tematiche inerenti la legalizzazione del tormento, ma che ha il pregio di integrare attraverso una serie di riflessioni estetiche, la convinzione che solo l’arte e la letteratura possano fare luce laddove la legge sembra immersa nell’oscurità. Il tentativo di riabilitare le pratiche di tortura, pur all’interno di Stati-nazione in cui vigono ordinamenti giuridici costituzionali, è ormai noto. Fino a qualche anno fa la condanna verso queste pratiche appariva unanime – per quanto questo non abbia impedito di aggirarne l’interdizione – e il divieto di utilizzo di ogni loro forma appariva come talmente condiviso in ambito giuridico da assurgere a principio categorico.

Nonostante, però, l’emersione sulla scena di leggi, giurisdizioni e Corti, associazioni governative e non governative, tutti elementi che dovrebbero garantire il divieto assoluto di tortura, essa fa nuovamente capolino nei sistemi democratici. Quello che sembrava un punto di non ritorno della modernità giuridica, l’interdizione della tortura come pena, consolidatasi da almeno due secoli, sembra oggi venire meno, riportando il tema come centrale nel dibattito pubblico. L’attacco terroristico alle Twin Tower dell’11 settembre 2001 ha rappresentato uno straordinario acceleratore in questo senso. Dopo l’attentato ci si chiede se non sia forse utile, come la guerra al terrore globale sembra suggerire, un ricorso ponderato, limitato, magari legalizzato alla tortura. Nel dibattito tra teorici del diritto l’accettazione della riabilitazione della tortura è stata definita come un autentico incubo dell’ordinamento giuridico. Si sostiene che la modernità del diritto penale si fonda non solo sulla contraddizione fenomenologica tra diritti e tortura, ma su una vera e propria impossibilità discorsiva attorno alla tortura e dentro il diritto.

In accordo con questa visione, per García Cívico se, da un lato, la tortura aggredisce l’integrità dell’essere umano, dall’altro, inficia dalle fondamenta la funzione propria dello stato di diritto, poiché il divieto di tortura è profondamente implicato nella logica interna delle garanzie proprie dello stato sociale. Eppure tale incompatibilità sembra ormai essere venuta meno e tra strategie normative e falsità discorsive, la tortura diventa “interrogatorio speciale”. Si tenta, cioè, di connotare la tortura come una strategia che si fonda sulla ridefinizione di nemico combattente, distinguendolo dal prigioniero di guerra che rientrerebbe, invece, nella tutela della convenzione di Ginevra, e di rinnovare i termini della violenza e della sofferenza, allo scopo di proporla come costituzionalmente legittimata.

García Cívico introduce nel dibattito la necessità di offrire una concettualizzazione normativa che porti alla condanna sempre e comunque della tortura e che possa superare l’attuale ristrettezza ed i limiti del quadro giuridico convenzionale. Occorre infatti considerare la tortura una violenza estrema, non per la gravità delle lesioni, bensì per l’elemento impreciso, oscuro, ed inquietante che accompagna la pratica e che rende impossibile ogni termine di paragone con qualsiasi altro delitto contro l’uomo. Innanzitutto, ci viene ricordato, la tortura è una forma di crudeltà estrema, intenzionale, che ha un diseño preciso, indipendentemente dalle modalità attraverso cui si esplica: siano esse legate alla privazione del sonno o all’applicazione di aghi sotto le unghie. Uno scopo che non ha a che fare neanche con le ragioni addotte ed ammesse tradizionalmente in ambito giuridico, la delazione o la confessione, e che ha altri obiettivi: l’asservimento, attraverso tecniche di ammorbidimento, del prigioniero e fino all’umiliazione del soggetto, privato di ogni identità culturale e sessuale.

Secondo García Cívico, come non è possibile sottovalutare l’impatto politico, giuridico e normativo dell’11 settembre 2001, non è possibile neanche sottovalutarne l’influenza determinate sull’immaginario collettivo. Per comprendere fino in fondo il legame tra diritto moderno e proibizione assoluta del tormento risulta indispensabile aprire uno spazio di indagine che oltrepassi la dimensione giuridica, integrandola in una più ampia storia del pensiero europeo. La garanzia dei diritti processuali – figli di quella stagione aperta dalla rivoluzione francese e che fa dire a Voltaire che “la tortura giudiziaria sarà per sempre un fatto del passato” – sono “fatti culturali”, non universali, ma universalizables. La proibizione assoluta della tortura è uno di questi fatti, la cui ultima determinazione è quella normativa.

Risulta allora decisivo per García Cívico tentare di comprendere quali siano le similitudini e le differenze tra forme di rappresentazioni artistiche di pratiche di tortura a partire dallo spartiacque delineato dalla serie di fotografie diffuse dal carcere irakeno di Abu Ghraib nel 2004. In questi scatti prodotti dagli stessi militari americani che gestivano la prigione, appare immediato l’accostamento con una certa iconografia barocca medievale, proprio per le posture richiamate dalla vera e propria “messa in scena” costruita dai carcerieri, che evocano un ampio immaginario di rappresentazioni artistiche della tortura. Le caratteristiche tipiche del torturatore (sadismo, ricerca calcolata di umiliazione, arroganza) sono state prontamente raccolte, rappresentate, riprodotte su tele, collage, performance.

Accanto a questo immaginario “classico” della tortura, però, la raccolta di nuove rappresentazioni scatenate da questa serie di foto, fa emergere l’intuizione che in tutte quelle immagini vi sia una caratteristica nuova e terribile, propria delle pratiche di tortura del XXI secolo: la banalità. Una banalizzazione del tormento che García Cívico non esita a mettere in relazione sia con l’estensione delle pratiche di tortura nel mondo – l’ultimo rapporto di Amnesty International 2015-2016 registra che più di 146 paesi nel mondo torturano, tre paesi su quattro del pianeta – sia con un’aumentata accettazione sociale di tale fenomeno – più di un terzo della popolazione mondiale ritiene che la tortura sia una necessità.

Un’opinione che è il risultato della costruzione di un immaginario collettivo, la cui formazione dipende in maniera decisiva da un numero ormai illimitato di immagini che prosperano sui media globali. Esse sono “teatrali”: non contengono sangue, né mostrano il volto del protagonista, così che al pubblico viene risparmiato ogni tipo di espressione di paura o dolore. Sono “attraenti” perché rappresentano un’approssimazione al reale, ma in un modo tale da poter essere assorbite come oggetto di consumo: una violenza spettacolare fruibile attraverso un medium.

Le rappresentazioni plurime prodotte sulla tortura dopo Abu Ghraib, quindi, non riproducono solamente i tratti dell’iconografia classica, ad esempio della pittura di Goya: la crudeltà, la retorica dell’“altro” o i volti del boia. Emergono anche elementi nuovi: la normalizzazione e la fredda banalizzazione di tali pratiche. Dall’impensabile morale e discorsivo, il diritto sembra stia precipitando rovinosamente verso una nuova prospettiva: il totalmente visibile. Sarebbe quindi possibile, secondo García Cívico, includere questa serie di immagini in un particolare genere iconografico che Marianne Hirsch studia come Surviving Images: fotografie prodotte da torturatori che, come fecero i nazisti, vengono immortalati mentre commettono atti criminali; immagini definibili come meccanismo estetico della distruzione in cui la produzione visiva diventa inseparabile da quella fisica o psicologica.

Quello che sembra delinearsi nella densa analisi di García Cívico è la ricerca di uno spazio di riflessione estetica attorno all’evoluzione della rappresentazione della tortura poiché esso è, al contempo, uno spazio di legittimazione politica del tormento. L’era della globalizzazione digitale sembra, per altro, agevolare in maniera decisiva il capovolgimento dei termini del discorso giuridico nel rapporto tra diritto e tortura. Un rapporto che sembrava – letteralmente – impensabile e che invece compare moltiplicato di fronte ai nostri occhi.

Riferimenti bibliografici
J.G. Cívico, La tortura. Aspectos jurídicos, sociales y estético-culturales, Tirant Lo Blanch, Valencia 2019.

*Le immagini presenti nell’articolo e in anteprima sono opere della mostra Abu Ghraib. Abuso di potere. Opere su carta di Susan Crile. 

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