È la terza volta che La svolta semiotica di Paolo Fabbri raggiunge gli scaffali delle librerie. La prima edizione è del 1998 e trascrive tre seguitissime lezioni che Fabbri aveva tenuto a Palermo nel novembre 1996 per iniziativa della Fondazione Sigma Tau e della casa editrice Laterza. La seconda edizione vede la luce nel 2001 con una nuova introduzione che riflette sugli sviluppi insorti in quel giro di anni. Questa terza edizione viene accompagnata da alcuni scritti inediti in italiano a cura di Gianfranco Marrone che, dopo la morte di Fabbri nel 2020, sta curando il copioso lascito archivistico del semiologo riminese «con oculatezza e dubbiosità» (sono parole sue, nella Presentazione che apre il volume). Ma si sentiva davvero la necessità di questa nuova edizione? La mia risposta è si, se ne sentiva la necessità. Soprattutto per valutare i successi ma anche le occasioni perdute della semiotica negli ultimi anni.
La “svolta semiotica” che è al centro del volume riassume ed esprime le trasformazioni che la disciplina stava vivendo alla fine degli anni novanta. Si tratta in realtà non di una prima ma di una seconda svolta; o meglio, di una svolta che ne riassorbe e ne sintetizza due cronologicamente e concettualmente distinte: Fabbri rinuncia programmaticamente a una genealogia diacronica del pensiero semiotico, il che produce un effetto di schiacciamento ottico.
La prima svolta si era prodotta alla fine degli anni settanta con il passaggio dal dibattito sul segno e i codici alla discussione sul testo. Possiamo individuare i punti di riferimento di tale trasformazione in Lector in fabula di Umberto Eco da un lato e nel Dizionario di semiotica di Algirdas Julien Greimas e Joseph Courtès dall’altro, entrambi del 1979. Si produce in questo momento il distacco decisivo dalla linguistica; l’assunzione di oggetti visuali, sonori, audiovisivi e così via quali materia di analisi; l’elaborazione di alcuni concetti teorici trans-mediali quali narratività ed enunciazione; ma si evidenzia anche la scissione tra la semiotica generativa di Greimas e quella interpretativa di Eco.
La seconda svolta si era invece profilata alla metà degli anni ottanta e aveva dato luogo al secondo volume, questa volta collettivo, del Dizionario greimasiano (1986) e a Semiotica delle passioni di Greimas pubblicato nel 1991 con Jacques Fontanille (uno dei grandi protagonisti di questo nuovo corso). La novità consiste in questo caso nel passaggio da modelli di cognizione “fredda” a modelli di cognizione “calda”: la corporeità, la tensività e la metaforologia incarnata; le emozioni e le passioni; la sensazione e il sentire estesico; a breve la sensomotricità, entrano tutti a far parte del campo semiotico ridefinendo il modo in cui essa pensa la produzione del senso. Una trasformazione che ricollega la disciplina alla tradizione fenomenologica (rispetto a quella analitica fino a quel momento dominante); e che coinvolge principalmente la semiotica generativa, isolando ulteriormente quella interpretativa. Ho espresso altrove questo passaggio come la nascita di una “semiotica dell’esperienza”. In sintesi: «Dobbiamo ridefinire la semiotica, non più come uno studio dei segni, ma come una ricerca a vocazione scientifica dei sistemi e dei processi di significazione» (ivi, p. 43).
Deriva di qui una duplice descrizione della disciplina che attraversa il volume: ad intra e ad extra. Il primo versante riguarda gli ordinamenti interni. Fabbri propone quattro livelli di articolazione operativa della semiotica: empirico, metodologico, teorico ed epistemologico; la successione come è evidente individua un passaggio dalle pratiche di analisi dei testi alla elaborazione di concetti più generali e alle procedure di controllo riflessivo delle varie operazioni. E manifesta al tempo stesso una perplessità per gli “anelli mancanti” di questo disegno nella ricerca concreta: per esempio i salti bruschi dall’analisi alla teoria, o i mancati passaggi da questa alla epistemologia. Il secondo versante concerne le relazioni della semiotica con le altre discipline – tanto quelle umanistiche quanto con le scienze sociali e con quelle della natura.
Fabbri sposa su questo punto l’idea secondo la quale la semiotica, nell’elaborare modelli di descrizione e di comprensione delle logiche e delle dinamiche della significazione, costituisce un potente organon (Latour), ossia «una specie di arte razionale, non universale, che fornisce modelli e massime per il funzionamento delle conoscenze cognitive e discorsive locali» (ivi, p. 76). Sotto questo aspetto, «è da Deleuze … che proviene la più precisa accezione della semiotica come intercessore tra le discipline della significazione» (ivi, p. 111), nel momento in cui il filosofo francese sostiene che «la natura misconosciuta della semiotica» consiste nel costituire una «scienza descrittiva della realtà» – in un passaggio di Cinema 2. Immagine-tempo che paradossalmente si rifà all’anti-semiotico Pasolini.
Che bilancio è possibile trarre a partire dal ricchissimo testo di Fabbri di quanto è avvenuto in questi ultimi venticinque anni circa della semiotica? In positivo, metterei una progressiva integrazione della disciplina nelle pratiche di analisi letteraria, visuale, mediologica e così via, anche tramite l’allacciamento di buoni rapporti con i cultural studies dovuti allo sviluppo della (critical) discourse analysis; lo sviluppo di una semiotica delle pratiche sociali che, ben allacciata a quella delle determinazioni del corpo, ha visto consolidarsi la sociosemiotica e la semiotica antropologica (lo stesso Marrone ha dato contributi significativi in questo senso); sul versante della semiotica interpretativa, l’avvento anche in questo settore dei modelli fenomenologici della conoscenza incarnata (per esempio nel lavoro di Claudio Paolucci e prima ancora di Patrizia Violi).
Sul versante negativo occorre segnalare a mio avviso un incontro ancora incompleto con il lavoro delle discipline strettamente scientifiche – per esempio le scienze neurocognitive. La causa di un simile impasse è a mio avviso più profonda di quanto appaia; e va cercata nuovamente nel libro di Fabbri.
Secondo l’autore la svolta semiotica prelude a una riconciliazione tra la semiotica generativa e quella interpretativa, ossia tra il progetto di Greimas e quello di Eco. Ritengo personalmente che questo obiettivo (perseguito in seguito da molti autori) sia non solo impossibile da raggiungere ma dannoso per la disciplina, in quanto le due semiotiche perseguono progetti che si possono incontrare solo se restano distinti. Da un lato la semiotica greimasiana si costituisce, come opportunamente osserva Fabbri sulla scia di Deleuze, quale una «meta-lingua della realtà». La semiotica interpretativa è invece una «ermeneutica sperimentale» incaricata di ricostruire i progetti di esperienza veicolati, innescati e guidati da un qualunque tipo di testo o discorso. Questa distinzione assegna alle due semiotiche ruoli differenti all’interno dei processi di ricerca. Da un lato la semiotica “interpretativa”, studiando i progetti di esperienza, si colloca sullo stesso piano delle discipline scientifiche, sociologiche e antropologiche che si applicano empiricamente all’analisi di casi specifici. Dall’altro lato la semiotica “generativa” può porsi come uno strumento di meta-descrizione dei fenomeni e quindi come una koinè che consenta un utilizzo e una generalizzazione dei risultati sperimentali condivisi tra differenti discipline (compresa la semiotica “interpretativa”).
Nel concludere l’introduzione alla seconda edizione del suo libro Fabbri inserisce una bellissima metafora: «La semiotica è in pieno mutamento e la sua inattualità può diventare tempestiva. Dovremo smettere di guardarla come una nave in bottiglia con l’effetto di sorpresa-completezza che danno i manuali di divulgazione e pensare che la ricerca nel labirinto dei segni non continua dalla fine né ricomincia da capo ma, come l’erba, cresce dal mezzo» (ivi, p. 114). Non lasciamo cadere questo appello.
Paolo Fabbri, La svolta semiotica, nuova edizione accresciuta a cura di Gianfranco Marrone, La nave di Teseo, Milano 2023.