La causa palestinese è l’insieme delle ingiustizie
che questo popolo ha subito e continua a subire
(Gilles Deleuze)

“Non so come si racconta una storia”. Comincia con queste parole l’ultimo film di Stefano Savona, vincitore, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2018, del premio l’Oeil d’Or come miglior documentario, e presentato in anteprima nazionale ad apertura del Sicilia Queer Film Fest, appena concluso. Una dichiarazione affidata alle parole della giovane protagonista del film, a cui le immagini girate da Savona giungono in soccorso, riuscendo meravigliosamente in quella operazione che, in più di un’occasione si sente dire, è forse la missione ultima del cinema del reale: dare voce a chi voce non ha, a chi non sa o non può raccontare la propria storia. Letteralmente le immagini sullo schermo non sono, in questo caso, che la restituzione di un racconto che si svolge in due tempi: quello di un passato che non c’è più (distrutto, spezzato, interrotto dalla guerra) e quello presente di una vita che, nonostante tutto, continua. La strada dei Samouni è «il racconto di come il popolo palestinese abbia saputo resistere e resista» (Deleuze 2002): è il sentiero fatto immagini che riconnette i due tempi differenti della lotta e li mette in continuità, per costruire la memoria di una piccola comunità e consentirle – raccontando ciò che è stato – di abitare uno spazio affollato di macerie, ma anche di un ostinato, quasi ancestrale, desiderio di rinascita.

È il 2009 quando Stefano Savona arriva a Gaza, a ridosso di uno dei più violenti attacchi israeliani nei territori palestinesi negli ultimi anni: l’operazione “piombo fuso”. Incontra la famiglia Samouni, distrutta dalla morte di molti dei suoi componenti: uomini, donne e persino bambini, uccisi barbaramente dai soldati israeliani, nel corso di quella famigerata operazione di guerra. Chi è sopravvissuto vuole raccontare ciò che è accaduto, deve farlo, per sé stesso e per chi non c’è più. Magari, però, non sa come e in che modo si restituisce l’orrore che, a Gaza, non finisce con la morte, ma continua nella costante e perpetrata negazione del diritto alla vita di un intero popolo.

Raccontare è il problema di chi c’era e ha visto, ma anche di chi non c’era (il regista), eppure sa esattamente che proprio nella costruzione di quella narrazione, in fondo impossibile, consiste il proprio compito. Prende inizio da qui un lavoro condotto per quasi dieci anni, concepito come radicale assunzione di una responsabilità originaria e per questo motivo del tutto impersonale: non essere stato presente nel momento in cui tutto è accaduto. Una colpa simile a quella di chi c’era ed è miracolosamente sopravvissuto e dunque ora può, o addirittura deve parlare, come la giovane protagonista del film, a cui si devono forse le parti più consistenti del racconto, certamente le più impressionanti perché hanno il tono deciso e allo stesso tempo ingenuo della voce di una bambina.

Per raccontare la sua vita e quella della sua famiglia prima dell’attacco israeliano, i giochi, la piazza con un enorme albero al centro, la bambina prende un gessetto e comincia a disegnare. Descrive luoghi e persone, le sue parole si tramutano in un tratto, tanto elementare quanto incisivo, tramite il quale ciò che non c’è più diventa magicamente visibile e torna a vivere. Il suo racconto, ogni racconto, quello di un film soprattutto, ha la consistenza eterea di un’immagine, evocata anzitutto nella mente e negli occhi di chi ascolta, e poi trasformata in oggetto visibile, quando si concretizza, come accade qui, nella forma un disegno.

In modo del tutto naturale, pian piano, quei tratti prendono vita e si muovono, grazie all’intervento di uno dei più raffinati animatori, attivi negli ultimi anni. Simone Massi trasforma le parole di un racconto orale in un film d’animazione, proseguendo idealmente il gesto della ragazzina che, sin dalla prima inquadratura del film, si impossessa consapevolmente del ruolo complicato della piccola narratrice, che è anche, però, un’incantatrice di serpenti. Decide infatti lei stessa dove condurre il racconto e l’occhio della macchina da presa che, in molti casi, la segue nel suo cammino fra i ricordi e le macerie.

È così che l’animazione occupa, lungo tutta la parte centrale del film, il posto delle immagini documentarie, mostrando malgrado tutto quello che esse non possono mostrare: la vita prima dell’attacco, l’arrivo delle truppe israeliane e infine la morte e la distruzione. Colmano dunque, come possono, un vuoto che è forse il senso ultimo del racconto che il film di Stefano Savona vuole e deve costruire. Poi di nuovo quelle figure animate – che sono insieme il frutto del racconto di coloro che c’erano e hanno visto, così come del lavoro creativo di mediazione di un disegnatore che alle parole si limita a dare una forma – lasciano di nuovo spazio alle immagini che la macchina da presa riesce a catturare, quando arriva e incontra la vita che resta. Non si oppongono i due regimi figurativi di cui il film è costituito, piuttosto si integrano, si intrecciano come fanno la vita e la morte: perché l’orrore, in un posto come Gaza, non si palesa soltanto con l’arrivo della morte, ma coincide con l’esistenza intera, trascorsa nell’attesa, nel timore e nel tentativo estenuante di schivare la fine.

Allo stesso modo, immagini documentarie e immagini animate si fondono nel film, fino quasi a rendere impercettibile, all’occhio dello spettatore, il passaggio dalle une alle altre. Anzi, di più. Forse esse non sono neppure, ontologicamente, due entità distinte. I due regimi rappresentativi che La Strada dei Samouni mette in gioco sono l’esito, infatti, di un lavoro di messa in forma del reale, nel quale bazinianamente, il documento e la finzione si co-implicano, in modo da non interrompere il circolo virtuoso che tiene insieme la rappresentazione estetica del mondo e la “flagranza” di quello stesso mondo. Già il racconto di chi rimane è il risultato dell’equilibrio complicato fra queste due istanze. Il lavoro del documentarista e quello dell’autore dell’animazione, di quella negoziazione, non sono che, per certi versi, la naturale prosecuzione e l’esito più avanzato su un piano figurativo. Ciò a cui tendono non è la verità del racconto (quella forse non appartiene neppure a chi ha visto la morte palesarsi davanti ai propri occhi), quanto piuttosto la sua “giustezza”, la sua “adeguatezza” formale: una forma che non sono gli autori del film a decidere, ma è una bambina a indicare, nel momento stesso in cui sceglie come dare inizio al suo racconto.

Le immagini che vediamo sullo schermo risalgono ormai a quasi dieci anni fa, ma dicono moltissimo, forse tutto della Palestina di oggi. Perché purtroppo la Storia non ha preso un altro corso: è vero certamente. Ma forse anche perché il cinema, quando è grande cinema, sa raccontare storie capaci di costruire sempre un ponte con il proprio presente. Questo è giusto.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 1999.
G. Deleuze, Grandezza di Arafat, Cronopio, Napoli 2002.
G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano 2005.
D. Dottorini, La passione del mondo. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano 2018.

Share