A trentun anni Georges Bataille assume la direzione della rivista “Documents”. Al suo nome saranno legati quindici numeri, pubblicati tra il 1929 e il 1930, di quella che nelle intenzioni del suo editore avrebbe dovuto essere un’elegante rivista d’arte illustrata e che si trasforma invece in un laboratorio visivo nel quale le immagini divengono il luogo di esercizio e di attivazione efficace di un’iconografia radicalmente anti-idealista e anti-mimetica. Ne La somiglianza informe, finalmente disponibile in edizione italiana (la francese è del 1995), Georges Didi-Huberman assume questo esperimento editoriale come oggetto paradigmatico per la concezione di una «immagine aperta» e per la critica di un «pensiero iconografico [che] considera le immagini come termini poco a poco sostanzializzati e fissi nel loro significato intrinseco, invece di comprenderne la fondamentale efficacia» di natura antropologica, come indica il sottotitolo che affianca beaux-arts ed etnografia.

È bene precisare subito che la rilevanza cruciale di questo testo per gli studi di teoria delle immagini non si limita al contributo di rilettura del lavoro editoriale di Bataille, ma consiste nell’emersione della categoria operativa dell’informe come pivot di un dibattito che, alla fine del secolo, ha investito la concezione del modernismo e delle sue genealogie tra Europa e Stati Uniti e, più generalmente, la questione cruciale dell’immagine-figura e delle forze capaci di scardinarla aprendola, per così dire, dall’interno.

Per Didi-Huberman, infatti, la rivista diviene un vero e proprio oggetto teorico (come recita la felice formula di Hubert Damisch): da una parte è oggetto storicamente situato che accoglie le sperimentazioni della fotografia surrealista e declina a suo modo il rapporto tra arte, documenti etnografici e primitivismo tipico di quegli anni, dall’altra è però il luogo in cui si dispiega, attraverso il montaggio tra testi e apparato visivo, una vera e propria teoria dell’immagine di natura trans-storica, che oppone alla distanza mimetica della rappresentazione “somigliante” ad un modello, la somiglianza del rapporto sintomale, agita per contatto.

In questo senso, La somiglianza informe si iscrive nella genealogia che attraversa tutto il lavoro di Didi-Huberman, alla ricerca delle risorse interne di senso con cui l’immagine si sottrae, “aprendosi”, ad un destino sempre possibile di idealizzazione, ipostatizzazione, distanza e atrofia figurativa: risorse che egli traccia sin dai primi lavori sulle forze sfigurali  del “visuale” e del “sintomo” (La pittura incarnata, e poi Davanti all’immagine, con un capitolo su «L’image comme déchirure» appunto), all’antropologia dell’immagine cristiana (L’immagine aperta), alle forze sintomali che aprono i corpi e il corpo della pittura nel Rinascimento (Aprire Venere), sino appunto a Documents e oltre.

Non si tratta certo di una progressione diacronica, bensì di cogliere all’opera la «dialettica di apertura e incorporazione» immanente all’immagine e operante nelle occorrenze storicamente situate di cui i Documents di Bataille sono esempio paradigmatico: «La mia ipotesi è che Documents abbia offerto a Georges Bataille l’opportunità di far subire al concetto di somiglianza una prova – un esperimento, un lavoro, una metamorfosi – sia teorica che pratica di alterazione e ridefinizione radicale» e che questo «smontaggio teorico nei confronti della nozione classica di somiglianza» venga condotto, oltre che attraverso i testi – che funzionano, del resto, secondo la medesima dialettica –, attraverso «un lavoro di montaggio figurativo, creando in tutta la rivista (e in particolare nell’illustrazione dei propri testi) una stupefacente rete di connessioni, contatti impliciti ed esplosivi, vere e false somiglianze, false e vere dissomiglianze…» (Didi-Huberman 2023, p. 14).

In Documents si trovano gli scatti di fotografi surrealisti come Jacques-André Boiffard e Man Ray, la documentazione di studi etnografici, opere d’arte e fotografie di periodici che si combinano con testi altrettanto eterogenei e costruiscono, con le altre immagini del numero, una fitta rete di associazioni, di eco figurali, di contrasti (in questo senso il libro sull’informe si inscrive anche nella riflessione sulla forma-atlante che porterà nel 2010 alla mostra di Madrid e alla pubblicazione di Atlas. Ou le gai savoir inquiet).

È però nel Dizionario critico – una serie di definizioni asistematiche che smentiscono ogni criterio dizionariale, tra cui bocca, metamorfosi, il dito del piede ecc. – che la voce «informe», redatta da Bataille nel settimo numero di Documents del 1929, offre a Didi-Huberman l’immagine di una trasgressione della somiglianza che non è annientamento ma lavoro trasgredente della forma, vi si legge: «Bisognerebbe effettivamente, perché gli uomini accademici fossero contenti, che l’universo prendesse forma. La filosofia intera non ha altro scopo […]. Per contro, affermare che l’universo non rassomiglia a niente e non è che informe equivale a dire che l’universo è qualcosa come un ragno o uno sputo» (ivi, p. 23).

Piuttosto che «rivendicare delle dissomiglianze assolute» o un nulla «puro e perfetto nella sua capacità di negazione», è somigliando a “qualcosa” che la somiglianza informe si sottrae alla propria ipostatizzazione: somigliando a forme che «lavorano alla loro stessa trasgressione», somigliando a qualcosa di mobile e pronto a farsi schiacciare, o di residuale, di miserabile. Se queste poche righe sono diventate tanto decisive è, dice Didi-Huberman, perché «la posta in gioco di questo “lavoro”, in un conflitto così fecondo, non è altro che un nuovo modo di pensare le forme: il processo contro i risultati, le relazioni labili contro i termini fissi, le aperture concrete contro le chiusure astratte, le insubordinazioni materiali contro le subordinazioni all’idea» (ivi, p. 24), questa la genealogia bataillana di un’immagine aperta.

L’informe, questa dunque la proposta dell’autore, non è mera negazione bensì alterazione della forma dispiegata attraverso le risorse stesse dell’immagine, le sue risorse laceranti: è attraverso “forme trasgressive” che si produce un’altra via alla somiglianza. Per comprendere questo lavoro delle forme laceranti in Bataille l’autore, in un primo capitolo di grande densità e, al contempo, chiarezza metodologica, parte dalla definizione stessa di somiglianza per poi chiarirne i modi di declassamento, trasformazione e apertura attraverso le forme che popolano la rivista, ossia attraverso le immagini stesse, ma anche l’immaginalità dei testi della rivista, immagini in parole.

«Somiglianza» non è qui mero sinonimo di relazione mimetica tra immagine e mondo, ma trova la sua genealogia nella concezione tomistica di una teologia cristiana della somiglianza. A partire dall’articolo di Bataille su “Figura umana”, Didi-Huberman esplicita il tipo di rapporto tra immagine e modello che opera nell’“essere a immagine di” e che si espande dall’antropologia cristiana ai modi della rappresentazione “idealizzati” o “accademici” della figura umana: la relazione gerarchica, unidirezionale, con un modello, il tabù del contatto, la natura mitica di un’identità con l’originale, costitutivamente disattesa. Contro questa teologia cristiana della somiglianza, modello per tutte le pratiche immaginali epuranti e idealizzanti nelle quali «la materia non deve entrare nell’affermazione del normale rapporto di “conformità”» (ivi, p. 33), Bataille rivendica una somiglianza informe che opera per «bas matérialisme», che supera «la punizione di mancare sempre della “vera” somiglianza» e assume euforicamente il rovesciamento della gerarchia del modello e della copia, dell’alto e del basso, della distanza e del contatto.

Da qui tutta l’iconografia bataillana della lacerazione antropomorfa che si esercita al doppio livello del contenuto figurativo – sono i suppliziati, gli squartati, i macellati, i corpi aperti convocati da Bataille –, e della forma, con l’erosione della stessa figuratività ad opera del sangue-chiazza-colore-scia di un supplizio visivo, oltre che semantico e patemico. Ma questa dialettica interna, tra la forma e le forze che la lacerano senza annientarla, è all’opera nella costruzione stessa dell’immagine e dello sguardo che la coglie anziché esserne mero contenuto tematico, come ben vede un autore per il quale sovvertire non è mai stata questione solo tematico-narrativa ma «fatto d’immagine».

Per questo Didi-Huberman, non solo non rinuncia ad esplorare l’operare immanente di una dialettica dell’informe attraverso l’analisi più ravvicinata delle sue forme, ossia di testi e immagini (esemplari le pagine sul primo piano che coglie e “anima” l’alluce di Boiffard), ma rivendica apertamente un’idea operante ed efficace della forma, preferendo relegare l’epiteto di “anti-formalista” per Bataille al contesto storico che lo aveva coniato, dal momento che riprendere oggi quell’espressione telle quelle significherebbe «asservirla a quell’“anti-formalismo” aperto – e assai dubbio – che oggi va per la maggiore in una parte della critica tanto refrattaria al pensiero teorico quanto avida delle più banali espressioni figurative» (ivi, p. 19), una frase che, riletta a quasi trent’anni dalla prima pubblicazione del volume, dimostra la piena attualità della sua traduzione e diffusione.

Georges Didi-Huberman, La somiglianza informe. O il gaio sapere visuale secondo Georges Bataille, Mimesis, Milano-Udine 2023.

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