La riconfigurazione cui sono andate incontro le società occidentali negli ultimi trent’anni, da un punto di vista politico e socioeconomico, non riesce a trovare un segno cui consegnare la propria custodia. Controllo, sorveglianza, spettacolo, ipertrofia dei servizi, automatizzazione… Il lavoro di Adrian Hon, che viene messo a disposizione anche del pubblico italiano grazie a LUISS University Press, aggiunge un tassello ulteriore al rompicapo, e lo fa con una certa ironia, col parossismo di un vecchio padrone rabbonito che depone la verga e comincia a distribuire coccarde: il vessillo dello status quo è divenuto il gioco.
I programmatori (come Hon) parlano di gamification, «l’uso dei principi del game design per scopi non ludici» (Hon 2024, p. 10). «Che siate autisti di Uber o addetti a un call center, programmatori o bancari, il vostro lavoro sta venendo sottoposto a gamification, il nuovo volto amico per lo sfruttamento di milioni di persone» (ivi, p. 8). Un processo non collaterale, ma piuttosto consustanziale alla progressiva quantificazione dell’esistenza: quasi «tutto quello che può essere nominato o registrato è stato gamificato» (ibidem).
Ma da dove salta fuori tutto questo? Sembra che nessuno si sia sprecato a guardare il vaso di Pandora mentre veniva scoperchiato. Sebbene, a rigore, il “gioco”, anche come paradigma, sia una cosa tutt’altro che esclusiva del nostro tempo, è solo negli ultimi vent’anni che la convergenza dello sviluppo tecnologico (ivi, pp. 19-26) e della gaming culture (ivi, pp. 26-31) ha reso possibile un’articolazione massiva del fenomeno della gamification. Infatti, «i browser più avanzati, i computer e gli smartphone più rapidi, nonché l’arrivo delle tecnologie del Web 2.0, hanno permesso l’esistenza di applicazioni più interattive, reattive e personalizzate» (ivi, p. 19).
Da Stack Overflow a Foursquare, poi Linkedin, Strava, l’interconnessione digitalizzata ha cominciato a implementare la propria struttura ludicamente, dando vita a quella che Hon definisce «gamification generica», quella patina di tabelloni, livelli e punteggi, che dopo averlo scontornato e stilizzato, rende il gioco un calco vuoto da imprimere senza discrezione. In fondo che problema dovrebbe esserci nel volersi migliorare, auto-stimolarsi (anche se di autonomo non c’è quasi mai nulla) a fare di più, foss’anche sfruttando lo spirito agonistico che alberga in ognuno di noi?
Barre di avanzamento, bedges, premi di frequenza; possiamo aiutarci ad imparare una lingua (Duolingo), perfezionare i nostri drift in macchina (My Drift Analyzer), tenere la casa in ordine (Chore Wars), variegare le nostre performance amorose (Tinder) o migliorare semplicemente l’economia domestica (Fortune City): il comun denominatore resta la gamification generica. Tutto questo, peraltro, con accondiscendenza buonista di Apple e Google, che in percentuali sugli acquisti nei rispettivi app store, hanno guadagnato miliardi di dollari (ivi, p. 38).
Emblematici per Hon sono i casi di gamification del brain training e del fitness (esempio particolarmente significativo, vista la centralità progressivamente assunta dal tema del «benessere» nell’ideologia neoliberale dominante nei paesi iperindustrializzati). L’incentivo alla competitività gamificato di app e strumenti come Strava, Fitbit e (come corona) AppleWatch – talmente stringente da far prediligere gli infortuni all’umiliazione in molti utenti (ivi, pp. 45-48) –, fa il paio con giochi per allenare la mente, quali Luminosity, Brain Age o Elevate, avvalorati da sporadici studi, talvolta molto superficiali, controfirmati da «scienziati con un bel curriculum» (ivi, p. 49) spesso al soldo delle case di produzione stesse.
«La gamification ha due scopi: aumentare il coinvolgimento dell’utente e lasciar intendere che alle aziende stia a cuore il bene dei propri utenti. Si è trattato però di una gamification profondamente generica, basata sull’assunto che tutta la realtà che conta è racchiusa nelle cifre» (ivi, pp. 51-512). Non stupisce, quindi, che la sfera lavorativa sia stata ugualmente investita da questo processo di rifunzionalizzazione ludica dell’esperienza e dell’azione. Hon approfondisce nel dettaglio diversi casi, secondo il design e i supporti tecnologici delle varie forme di gamification, oltre ai diversi settori economici entro cui vengono innestate. Maestri della gig economy come Uber, colossi dell’industria tecnologica tipo Google e Microsoft, fast-food (McDonald’s), e-commerce (Amazon), autotrasporti (American Trucking Associacion), recruitmnent (HackerRank), nessuno escluso.
Il potere ha un’aria faceta e lasciva, e ci spiega che il capitalismo è un gioco; solo, non ci dice che non giocare è impossibile.
Se sceglierai bene, manterrai basso il punteggio delle tue penalità e supererai i tuoi obiettivi, dunque sarai senz’altro promosso. E se non ci riuscirai, magari perché ti sarai stancato accudendo un bambino malato, non sarà per colpa di un sistema ingiusto e sbagliato, ma perché non hai seguito le regole del gioco. Questo concetto di scelta è però un’illusione. La scelta è tra accettare tutte le regole di Amazon o venire licenziati. Non è una scelta, è una coercizione (ivi, p. 63).
Forse il lavoro, semplicemente, non è un solo un fatto di gioco (ivi, p. 89). Quando la gamification diviene il sorriso sinistro di un dio incravattato incurante degli infortuni, della frustrazione e dell’indigenza, il divertimento (del resto appiattito sull’agonismo) è ormai nient’altro che lavoro.
Ma c’è di più. A riprova dello scollamento tra gamification generica e gioco in generale, i videogames stessi sono andati incontro a un progressivo appiattimento sugli schemi pseudo-ludici del nuovo postfordismo dei balocchi. L’industria dei videogiochi non ha infatti tardato a scoprire su di sé qualcosa che ha tuttavia dovuto apprendere da altri: determinati schemi di gioco possono manipolare l’azione, e mentre i gesti si ripetono gli utili si moltiplicano. Ciononostante, è pur sempre ai videogiochi che occorre guardare per cogliere le strutture formali: la «gamification è più antica dei videogiochi, ma sono stati i videogiochi a sistematizzare le meccaniche, l’estetica e soprattutto la logica dei premi, della quale si è appropriata la gamification» (ivi, p. 115).
Universalizzando strategie di game design quali «gacha» – «meccanismi a ricompensa casuale» (ivi, pp. 114-115) – e loot box (casse/forzieri virtuali contenenti items vari, spesso rafforzate dalla presenza di contenuti casuali), l’industria videoludica si è ritagliata una porzione di rilievo primario nella sfera dell’intrattenimento, al costo di veder scontornare però la soglia che la distingueva nettamente dal gioco d’azzardo. Anche qui, il fenomeno è omnicomprensivo: da piattaforme multigame (Gamescore di Microsoft o Steam), ai giochi freemium (Clash of Clans, Candy Crush e Fortnite, che, per dare contesto, ha incassato 5,5 miliardi di dollari nel 2018), inglobando la maggior parte dei videogiochi (Hon non esclude comunque un game design epurato da strutture proprie della gamification, menzionando come caso virtuoso molti giochi Nintendo (ivi, pp. 128-131)).
La contrapposizione non è però solo tra tempo libero e lavoro, ma anche tra sfera pubblica e privata: «La natura altamente centralizzata delle nostre tecnologie fondamentali consente e forse incoraggia lo sviluppo di tendenze autoritarie» (ivi, p. 134). È possibile gamificare lo Stato? Il sistema dei crediti sociali cinese sembra lasciare pochi dubbi in merito (ivi, pp. 135-139). Ma se la Cina ha monopolizzato anche fin troppo l’immaginario mediatico in merito alla questione della sorveglianza di Stato, i casi della Gran Bretagna e degli USA non gettano una luce più rassicurante sulla situazione in Occidente. Una serie di videogiochi FPS come America’s Army per incentivare l’arruolamento, o la prima propaganda presidenziale gamificata di My.BarackObama.com (che ha fruttato un surplus di 30 milioni di dollari ad uso della campagna elettorale (ivi, p. 152), fino a complessi meccanismi di quantificazione dell’istruzione come ClassDojo, che allineano educazione e prestazione in termini di punteggi.
La società della ricompensa di Adrian Hon è un testo prezioso, uno strumento importante. E se l’autore si mostra forse ingiustificatamente indulgente verso il fenomeno complessivo della gamification, non rinunciando a un possibile uso positivo (il quarto capitolo, quello dedicato alla «buona gamification» è sicuramente il meno consistente, presentando due casi di studio molto specifici e scarsamente edificanti), è forse giusto, altrettanto, che il contenuto di questa ricerca – che offre una panoramica tridimensionale su un tema così fondamentale e così di rado interrogato nel suo complesso – sia consegnato alla discrezione dei lettori e delle lettrici, cui l’invito che in fondo Hon muove sin dal principio è di ricordarsi che noi non siamo mai stati, e mai saremo un punteggio (ivi, p. 245).
Adrian Hon, La società della ricompensa. Perché la gamification ci fa giocare di più ma divertire di meno, traduzione di Paolo Bassotti, Luiss University Press, Roma, 2024.
*L’immagine all’interno dell’articolo e in copertina è un dettaglio della copertina del libro.