«Un punto singolare nello spaziotempo», scrive il filosofo della fisica John Earman, «è un punto in cui, per esempio, la curvatura dello spaziotempo esplode [blows up]. A rigor di termini, questa idea è incoerente, poiché se la metrica dello spaziotempo è mal formulata [ill-behaved] in un punto, allora quel punto non fa parte dello spaziotempo» (Earman 1995, p. 28). Una singolarità, allora, è un evento – quindi qualcosa che accade nello spazio-tempo – che tuttavia per la sua stessa eccezionalità «non fa parte dello spazio-tempo», cioè non si può sostenere che sia accaduto in un punto dello spazio e in un momento del tempo. Pertanto una singolarità è qualcosa che sicuramente è stato, ma altrettanto sicuramente è come se non potesse esserci stato. Più precisamente, una singolarità è un evento che non sappiamo come pensare, dal momento che possiamo pensare solo eventi collocati nello spazio e nel tempo.

Una situazione per certi versi analoga è quella della Shoah, un evento che è documentato storicamente e spazialmente, ma che tuttavia continua a sfidare il nostro pensiero. Con la Shoah il pensiero tocca il suo limite interno: la Shoah c’è stata, indubitabilmente e orribilmente, ma allo stesso tempo è un evento che continua a non essere propriamente pensabile, perché eccede tutte le categorie e gli schemi che rendono un pensiero pensabile. Allo stesso modo tutte le immagini – sia quelle storiche che quelle di “finzione” – che mostrano la Shoah, per quanto terribili ed eloquenti, sembrano sempre fermarsi al di qua dell’evento che provano a rendere visibile. La Shoah sembra essere, e paradossalmente visto che è un evento storico e molto ben documentato, invisibile perché costringe la nostra visione a spingersi oltre i propri stessi limiti, nel senso che la costringe a vedere ciò che non può essere visto, l’invisibile appunto.

In effetti qualunque immagine, anche la più spaventosa, è soltanto un’immagine, per quanto possa essere appunto terribile e insopportabile; ma la Shoah è infinitamente più terribile di quanto ogni immagine – insistiamo, anche la più sconvolgente – possa mostrare. Una situazione, è da qui che prende le mosse il libro di Arturo Mazzarella, La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini (Bompiani 2022), resa ancora più urgente nel tempo in cui anche gli ultimi testimoni diretti della Shoah stanno morendo (una questione che negli ultimi tempi è sentita con particolare intensità, in particolare ora che l’antisemitismo rialza la testa in molte parti del mondo). Come potremo ancora vedere la Shoah, quando non ci sarà più nessuno che l’abbia vista in prima persona, qualcuno che ci possa confermare la nostra visione inevitabilmente indiretta della Shoah?

Per provare a rispondere a questa domanda Mazzarella scandisce il suo percorso teorico in tre tappe, dal visto all’invisibile: “Occhi che hanno visto”, dedicato ai testimoni; “Occhi che non possono vedere”, ossia quelli che sono stati in qualche modo eredi della visione dei primi; infine, ed è la condizione che presto sarà l’unica possibile, “Occhi che non vedranno mai”. In realtà, ed è la tesi centrale del libro, la Shoah rimane comunque un evento impensabile e quindi invisibile, perché rappresenta una singolarità in cui il pensiero collassa impotente. Mazzarella, cioè, si rende conto che anche la visione dei testimoni non rende meno invisibile e impensabile per tutti gli altri (ma forse, ed è la scoperta più terribile, per gli stessi testimoni) la Shoah. In questo senso il problema che si sta aprendo con la progressiva scomparsa di tutti i testimoni diretti non è diverso da quello che c’è sempre stato. La Shoah è una singolarità che sembra inghiottire tutti i nostri sguardi e i nostri pensieri: «C’è qualcosa evidentemente che continua a sfuggirci della Shoah, se l’orrore di fronte allo stermino di un numero indeterminato di vittime […], si è rapidamente dissolto in un motivo estetico. Significa che alla nostra comprensione manca ancora l’anello – un anello assolutamente centrale – che consente di saldare questo evento al nostro presente: in primo luogo attraverso varie forme di intrattenimento letterario e cinematografico» (Mazzarella 2022, p. 8). Sarà questa, come vedremo, la proposta di Mazzarella per provare a rispondere alla domanda su come riuscire ancora a vedere quel che presto nessuno avrà mai visto. Il testimone, ora, deve passare all’arte e alla letteratura.

In effetti nella Shoah permane, per Mazzarella, «un residuo simbolico che rimane ancora enigmatico, difficile da decifrare» (ivi, pp. 18-19). È il caso della Shoah come assoluta singolarità, in cui come abbiamo visto collassano tanto il pensiero che lo sguardo. Ecco perché il problema che si sta aprendo con la scomparsa degli ultimi testimoni non è diverso, in linea di principio, da quello che c’è sempre stato, anche quando si poteva contare sulle numerose e indubitabili testimonianze dirette dei sopravvissuti. La posta in gioco è sempre stata l’impensabilità della Shoah: «Perché non ipotizzare, allora, che la Shoah sia rivelata già ai suoi stessi testimoni oculari nei termini di una costellazione enigmatica di immagini prima ancora che un evento ben definito, del quale si potevano individuare le cause e identificare il contesto?» (ivi, p. 20).

Ma come vedere, allora, l’invisibile, se gli stessi testimoni non sono riusciti a pensare l’evento singolare della Shoah? Perché, come scrive Mazzarella facendo sue le parole di Rosalind Krauss, «la visione umana è ben lungi dal padroneggiare tutto ciò che abbraccia con lo sguardo» (ivi, p. 42). Tuttavia questo non significa affatto rinunciare a tentare di comprendere e in qualche modo di vedere la Shoah, si tratta piuttosto di immaginare quell’impensabile evento non come qualcosa di avvenuto una volta per sempre (e quindi perduto e ormai definitivamente invisibile), bensì e al contrario come l’inizio di una nuova avventura dello sguardo. Se non ci sono più testimoni lo diventeranno tutti coloro che non smetteranno di provare a vedere quel che non si può vedere: per questa ragione «la storia della Shoah non si conclude, allora, con la liberazione dei campi, ma da lì prende inizio» (ivi, p. 205). Si tratta quindi di provare a vedere il passato non con gli occhi del passato, che non ci sono più, bensì con quelli del presente, un presente in cui non smette di risuonare quel passato:

Su questa indispensabile inversione dei nessi temporali (che, in piena autonomia, conferma la priorità dell’après-coup freudiano) Godard riconfigura la sua interpretazione della Shoah. Che non potrebbe risultare più blasfema, se, per limitarci al primo episodio delle Histoire(s), un’immagine dei cadaveri che giacciono in un campo è affiancata da una scena, tratta dal film di George Stevens "Un posto al sole" (1957), in cui spicca il sorriso smagliante di Elizabeth Taylor. Non potrebbe esserci una dissonanza maggiore di quella che alterna ai fotogrammi spettrali dei corpi senza vita nel Lager la spensierata euforia di una tra le icone di Hollywood. Ma Godard vuole enfatizzare proprio il contrasto stridente, quasi sacrilego, tra le due sequenze, intervenendo in prima persona per commentare che “se George Stevens non avesse utilizzato la prima pellicola a colori in sedicesimi ad Auschwitz e Ravensbrük, probabilmente la felicità di Elizabeth Taylor non avrebbe trovato mai un posto al sole” (ivi, pp. 205-206).

Non è quindi che il celebre sguardo di Elizabeth Taylor si mostri nonostante (e quasi in spregio di) Auschwitz, al contrario, solo perché c’è stata la tragedia di Auschwitz l’attrice ha potuto sorridere in un modo così conturbante e ammaliante. Mazzarella rovescia così la nostra prospettiva; non si tratta di rimanere inchiodati ad un ricordo che rischia, con la scomparsa degli ultimi testimoni, di diventare sempre più labile e indeterminato. Si tratta piuttosto di lavorare quelle immagini invisibili per continuare a farle vivere – e quindi a farle vedere – proprio grazie alla loro trasformazione: «Le immagini vanno manipolate, alterate, per non tradire la pluralità di significati che portano inscritti al di là della loro evidenza sensibile, per lasciare la possibilità che questa stratificazione del senso si renda disponibile, volta a volta, alla decifrazione di un’attualità storica sempre diversa» (ivi, pp. 212-213). La memoria si può ricordare e tramandare solo a condizione di non lasciare che si spenga con la fine degli sguardi dei testimoni. In questo senso si potrà continuare a vedere anche quello che non si è mai visto.

Per Mazzarella la figura esemplare di questo incessante lavorio della memoria senza, paradossalmente, alcun ricordo diretto degli eventi che cerca di rievocare è quella dello scrittore tedesco Winfried Georg Sebald (1944- 2001), l’autore dello straordinario romanzo Austerlitz: a «Sebald […] per partecipare a un evento che non ha mai vissuto, neanche indirettamente, eppure ha segnato con un marchio incancellabile la sua generazione, […] basta solo attivare l’inconscio ottico di Austerlitz, oramai limitrofo alla sua coscienza, trasformandolo in una sorta di protesi dello sguardo di tutte le vittime di Terezín e di tanti altri ghetti e campi» (ivi, pp. 230-231). Sono l’arte e la letteratura, infine, che riescono a vedere quello che non si può più vedere; questa, conclude Mazzarella, «è la sola risorsa esistente per neutralizzare i rischi di una nuova Shoah» dal momento che non è ancora spento «l’intreccio di pulsioni che ha presieduto alla sua genesi. Vivo più che mai nell’aspirazione a un’immagine totalizzante, che, per attestare la sua unicità, deve rivolgersi all’annientamento di ogni altra immagine» (ivi, pp. 252-253). In definitiva, non è nonostante il «conflitto delle immagini» che può sopravvivere la memoria dell’invisibile e singolare evento della Shoah, ma solo grazie a questo stesso conflitto.

Riferimenti bibliografici
J. Earman, Bangs, Crunches, Whimpers and Shrieks. Singularities and Acausalities in Relativistic Spacetimes, Oxford University Press, New York 1995.

Arturo Mazzarella, La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini, Bompiani, Milano 2022.

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