Metropolis (Lang, 1927)

Sono tempi, i nostri, in cui la lettura di un libro come Massa e potere (uscito nel 1960) avrebbe ancora molto da insegnare: non già per l’inestricabile legame tra i due termini che il testo contribuisce a evidenziare in presa diretta (il momento cruciale dell’ascesa del nazionalsocialismo), quanto per la modalità di interrogazione dei problemi, che nell’autore trascende il campo di una riflessione irrigidita nello specialismo dei concetti, per farsi verifica costante delle idee nel loro rapporto col modificarsi continuo della realtà. A suggerirlo, fra le tante sollecitazioni, è l’Introduzione a Elias Canetti. La scrittura come professione firmata da Leonard Mazzone, che all’autore di origini bulgare ha dedicato buona parte dei suoi studi. Si tratta di una guida efficace perché, tenendo fede al presupposto canettiano di un pensiero che ha bisogno di legarsi all’esperienza diretta dei fenomeni, allestisce un dialogo fitto tra la biografia e l’opera, permettendo al lettore di seguirne le traiettorie.

Mazzone isola una serie di direttrici. Tra queste, il nesso che unisce scrittura e morte occupa non poche riflessioni perché descrive l’originale posizione di Canetti nelle vicende del secolo scorso e permette di comprendere meglio i suoi studi sulle masse, per i quali resta un riferimento imprescindibile ancora oggi. La resistenza alla morte, che si esplica attraverso una scrittura sofferta e problematica, sempre in crisi con sé stessa, è una forma di ribellione «all’esperienza della sopravvivenza, che lega la conservazione o il potenziamento della propria vita all’annichilimento o alla sottomissione di quella altrui» (p. 33), perché sopravvivere implica una qualche forma di diniego dell’alterità. Pertanto, attenuare il piacere di sopravvivere significa resistere a una sorta di principio fondante della relazione di potere.

L’autoaffermazione dell’Io-autore diventa allora un bersaglio inevitabile. Il culto del grande autore, o semplicemente l’investimento sulla costruzione di un profilo autoriale, sul proprio essere scrittore (che in tal senso, nota Canetti, «amministra una posizione sociale come qualsiasi borghese»: p. 34), fa parte di una dimensione più ampia della violenza diffusa, che tocca anche la storia della cultura e delle rappresentazioni. È allora sorprendente la posizione di Canetti – per nulla assimilabile a un facile moralismo o a un gratuito spirito d’opposizione –, così riassunta da Mazzone: «Se chi aspira alla gloria finisce per trasformare i suoi contemporanei in una sorta di altoparlanti programmati per ripetere e diffondere il suo nome, uno scrittore degno di questo nome dovrebbe deporre ogni pretesa di sopravvivere ora per tentare, invece, di sopravvivere da morto». Nello stesso tempo, resistere alla sopravvivenza significa allestire narrazioni nelle quali l’autore si mette da parte, si elide, si nasconde: «Per portare a termine la sua missione, lo scrittore dovrà comporre le sue opere come se nessuno dei contemporanei potesse leggerlo» (p. 37).

Questa ambizione, in fondo tipicamente modernista, presuppone un’idea assai potente delle capacità rabdomantiche dell’interrogazione letteraria. Per mettere in evidenza il metodo analitico di Canetti, mosso da un’attenzione verso la massa che è anche riflessione sul rapporto individuale con l’alterità, non casualmente Mazzone dedica spazio a un concetto importante come quello di “maschera acustica”. «Gli individui mascherano le loro intenzioni dietro formule verbali semanticamente impermeabili e riconoscibili solo acusticamente»: ciò autorizza a pensare che la lingua – sì salvifica perché mantiene in vita i morti e rende possibile la trasmissione della conoscenza – è anche scissa dalla vita manifesta, dal momento che il potenziale acustico espresso dall’individuo (qualcosa che ha a che fare col tono, col timbro, con la velocità del parlare) nasconde e dissimula «le intenzioni dei parlanti di una comunità linguistica» (pp. 86-87). Questa attenzione musicale autorizza Canetti a rappresentarsi come il «testimone auricolare del Novecento, incaricato di propagare l’eco delle voci del proprio tempo ai posteri per rinnovare il potere salvifico della lingua appresa dalla madre» (p. 95).

L’udito diventa il senso che apre alla complessità socialmente stratificata: complica, cioè, il quadro delle relazioni, perché postula un altrove sonoro che agisce oltre la rete del significato. Del resto, il lettore dello straordinario Le voci di Marrakech avverte che nell’opera di trascrizione e traduzione auditiva ad assumere importanza è quell’universo nascosto che va smarrito nell’atto stesso della comprensione. «Se la nozione di maschera acustica condensa l’atomizzarsi delle forme espressive individuali in veri e propri automatismi linguistici, l’ascolto e la comprensione degli altri comportano il medesimo sforzo richiesto in ogni esercizio di traduzione interlinguistica, anche se profuso all’interno di una medesima comunità linguistica abitata da interlocutori che non si capiscono più fra di loro» (p. 102), commenta Mazzone. Nell’auscultazione “ritmica” della massa in movimento, tale programma di ricerca sembra assumere un significato ancora ulteriore, quasi a conferma che il testimone auricolare e il diagnosta uditivo del secolo scorso siano obbligati a seguire quelle tracce che restano sullo sfondo dell’evidenza.

Riferimenti bibliografici
L. Mazzone, a cura di, Introduzione a Elias Canetti. La scrittura come professione, Orthotes, Salerno 2018. 

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