La prima inquadratura de La ruota delle meraviglie, ultimo lavoro di Woody Allen, vede la spiaggia di Coney Island satura per persone e per colori, decisi, vari, stipati: Jeally-beans su un grande schermo che è Imitation of Life, mimesi di un Technicolor alla Douglas Sirk. Infatti, il bagnino-narratore Mickey (Justin Timberlake), dalla sua torretta promette di raccontare una storia a tinte forti, forse melodrammatiche. Il tutto a dispetto del suo tono complice e leggero, un po’ come nell’incipit di certi racconti di Scott Fitzgerald (il cui spirito innervava seminascosto già il precedente Café Society), o la canzone dei Mills Brothers in colonna sonora.
Anni Cinquanta. Ginny (Kate Winslet), attrice mancata e cameriera in un ristorantino di Coney Island, con un figlio piromane che marina la scuola per infilarsi nei cinema, è sposata in seconde nozze a Humpty (Jim Belushi) infantile e rude giostraio, e sogna una relazione con Mickey, anche lui con ambizioni teatrali irrealizzate. Nelle loro vite irrompe Carolina (Juno Temple), figlia di Humpty, in fuga da un marito gangster.
Proprio nel luogo d’evasione popolare a buon mercato, nel microcosmo spiaggia-Luna Park, si agitano personaggi che domandano vie di fuga o le cercano in altri. Carolina scappa dai gangsters ed è per Humpty oggetto di rozzo e bonario affetto; Ginny invece è attratta da Mickey o lo rincorre. Scappa anche Richie, il piccolo figlio di lei, sempre rincorso a sua volta da qualcuno per l’ennesimo rogo appiccato.
Il parco divertimenti sul mare, per quanto sgargiante, non offre dunque attrazioni ai personaggi. Eccoli allora costruire sempre in un altrove o nell’altro le proprie interiori Coney Island, le proprie imitations of life, ricorrendo a luoghi liminali, gli unici possibili. Teatro degli incontri di Ginny e Mickey che sognano messe in scena da Eugene O’Neill, sono infatti le impalcature di un molo, tra mare e sabbia, o è l’appartamentino studentesco di lui al Village dove la donna riaccende le proprie ambizioni giovanili d’attrice. Oppure, si cercano luoghi ancora più remoti nel loro “esotismo”, non targati U.S. come Coney Island: il Giardino Giapponese di altri appuntamenti tra Kate Winslet e Justin Timberlake, quest’ultimo poi a cena con Juno Temple in un ristorante italiano.
Ai luoghi d’evasione si contrappone l’angusto appartamento tra giostre e rotaie dove vivono i protagonisti. La macchina da presa lo percorre mobilissima e agile, come fosse a propria volta su montagne russe (senti)mentali.
È un po’ la versione speculare, quindi, della casa di Alwy Singer bambino in Io e Annie, incastonata proprio in un otto volante a Brooklyn: ricordo del cinema alleniano precedente, binario dove si muove il carrello attratto da personaggi che litigano, scappano, desiderano e si creano spazi immaginari come il regista costruisce la propria Coney Island di film.
Il cinema che ne viene fuori – come la voce dall’apparecchio in Radio Days, o il film visto e vissuto da Mia Farrow in La rosa purpurea del Cairo – è ancora attrazione, far girare su giostra invenzioni come la Wonder Wheel dei colori di Vittorio Storaro. Saturi, si diceva, modulano volti e ambiente, sono emanazione del Luna Park e insieme illusione delle accensioni Technicolor anni Cinquanta. La dominante calda della luce, tanto ricorrente nel lavoro di Storaro (Ultimo tango a Parigi, Novecento, Apocalypse Now), è folgorante tramonto, al limite della sovraespozione sui capelli rossi di Kate Winslet, quindi canto del cigno della luce solare come dei desideri di lei, tanto più accesi quanto meno raggiungibili.
E mentre, parlando tra loro, i personaggi si nascondono o si cercano intimità gli uni negli altri, la ruota cromatica (magenta, violetto, azzurro, arancio) si fa ancora esternalizzazione, messa in immagini dei loro individuali Luna Park, del loro puntellare bassezza e quotidiano grigiore con l’invenzione espressionista o il modello di un teatro elevato a tinte forti. Il loro provare a fare dell’esistenza un’attrazione che non si armonizza con ciò che effettivamente vivono, ha i suoi correlativi oggettivi proprio nell’alternanza di luce, ombra, colore. Formule, queste (secondo la definizione eliotiana), che rendono sensibili e dunque visibili (cinema, quindi) sia il sentire dei personaggi, che l’essere il film stesso costruzione attrattiva che è capace di dire l’inanità del cercare pienezza e perni al proprio esistenziale girare su e giù. Nel dire questo, però, il cinema fa uso di tutto il suo variopinto spettro, anche nella penombra del turbolento appartamentino, dove inevitabilmente rapporti di desideri (e rapporti di colori) confliggono, contendendosi magari il medesimo oggetto (Mickey tra Ginny e Carolina) senza potersi armonizzare tra loro. È l’essenza del tragico, rilevata, per esempio e tra altri, da Goethe.
Del resto, proprio ripensando la goethiana teoria dei colori (e infatti, punto di riferimento per la prassi di Storaro), Wittgenstein notava: «Se per i colori esistesse una teoria dell’armonia, questa dovrebbe incominciare con una ripartizione dei colori in gruppi, e dovrebbe vietare certe mescolanze o certi accostamenti […] e permetterne altri» (Wittgenstein, 1977, I § 74).
I colori sono allora anche segno d’incandescenza delle relazioni: la loro non armonizzazione cede il passo a una complessiva organicità di composizione che li vede parte della medesima ruota. Sgargianti, chiassosi, in collisione come le vetture di un autoscontro, si fanno evidenza del conflitto tra Luna Park reale e quelli desiderati.
Così, una statura autenticamente tragica dei conflitti (che è sia O’Neill sia Tennesse Williams) si cala ed attualizza qui in un contesto working class.
La mimesi della vita sognata di Ginny, donna non più giovane e non più attrice (e che non esistesse il secondo atto nelle vite degli americani, era ancora una scoperta di Scott Fitzgerald), va incontro a uno scacco rassegnato. In questo Kate Winslet offre forse una delle sue più complesse prove attoriali, quasi una rotazione emozionale di colori a sua volta, che alle accensioni di tramonti brucianti fa succedere l’indaco della tristezza arresa nel suo ultimo primo piano.
Proprio nell’azzurra inquadratura finale, invece, è sul non rassegnato bruciare dei roghi del piccolo Richie che cade l’accento. A lui, che come Allen bambino marina la scuola per infilarsi nei cinema, a lui che è inutilmente in analisi, il film dedica il graffio finale, se cinema e fuoco sono in qualche modo affratellati. Uniche, possibili terapie attrattive.
Riferimenti bibliografici
T.S. Eliot, Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica, Bompiani, Milano 2016.
F.S. Fitzgerald, Racconti dell’età del jazz, Minimum Fax, Roma 2011.
J.W. Goethe, La teoria dei colori, Il Saggiatore, Milano 2008.
L. Wittgenstein, Osservazioni sui colori. Una grammatica del vedere, Einaudi, Torino 1977.