La serialità americana contemporanea presenta un’enorme galassia di storie di famiglia. Certo, il meccanismo delle relazioni familiari ben si presta a quel processo di serializzazione e di ripetizione mai uguale dell’identico che è alla base del funzionamento della narrazione seriale. Eppure forse c’è qualcosa di più in questo legame tra il racconto seriale e il family drama. Già Elsaesser, nel suo noto saggio sul melodramma, parlando del cinema di Griffith, e in particolare di Nascita di una nazione (1915) e Le due orfanelle (1921), in una sorta di ricostruzione archeologica del melodramma cinematografico, sottolineava come «gli effetti melodrammatici possono far slittare temi esplicitamente politici su livelli personalizzati», per cui conflitti ideologici vengono rivestiti «dalla carica emotiva di situazioni familiari» (Elsaesser 1992, p. 72). Tradizionalmente, dunque, sembrerebbe che attraverso il melodramma familiare la società americana riflette su se stessa, pur nella forma esplicita dell’evasione.

La serialità televisiva raccoglie sotto molti aspetti l’eredità del cinema classico americano, rimediando e ibridando forme e generi, riattualizzando la centralità della narrazione forte e riconfigurando il principio della verosimiglianza attraverso nuove dinamiche di rispecchiamento con i personaggi e nuove forme di costruzione del racconto. In questo contesto la famiglia rappresenta un meccanismo relazionale codificato molto riconoscibile, che diventa però l’occasione per scandagliare, in una modalità tutto sommato rassicurante, le fratture e i traumi profondi della società americana, talvolta nella forma affermativa e conciliante del lieto fine commedico, altre in quella dell’irrisolvibilità del conflitto tragico. Due esempi su tutti: alla prima tipologia appartiene This is us e l’elaborazione, attraverso la saga familiare, del razzismo in America, dagli anni ’60 ad oggi; al secondo Yellowstone e i suoi vari spin-off, in cui si offre l’attualizzazione del rimosso per eccellenza della storia americana, ovvero lo sterminio dei nativi americani e le conseguenze ancora oggi visibili di tale violenza radicale.  

Succession si inserisce dunque in questo panorama e tra i motivi dell’incredibile successo di questa ultima stagione, che l’ha collocata d’ufficio nell’olimpo della grande serialità, c’è senz’altro quello di aver lavorato in modo più profondo proprio su questo rapporto. Attraverso i singoli episodi, che anche presi individualmente potevano valere l’intera stagione, in cui l’intensità e il massimo dispiegamento della scrittura incontrano il controllo coerente e allo stesso tempo spiazzante della messa in scena, il racconto ha mostrato in modo sempre più intenso questo rapporto tra la famiglia, come dispositivo di relazioni, e la società americana, sovrapponendo alle insanabili fratture e ferite della famiglia Roy la crisi del rapporto tra capitalismo e democrazia in America.

Ci sono almeno tre passaggi nella costruzione esplicita di questo parallelismo che meritano di essere approfonditi, anticipati da uno dei momenti più intensi e spietati che la recente serialità ci abbia mostrato, ovvero la morte di Logan Roy. In modo del tutto inaspettato, il capostipite, cioè l’origine della guerra alla successione, muore durante un viaggio verso l’Europa dove era diretto per rinegoziare una trattativa per la vendita della Waystar Royco, ostacolata proprio dai figli. Forse è uno dei momenti di massima intensità della scrittura e originalità della messa in scena dell’intera stagione: non vediamo mai il corpo di Logan sofferente o in fin di vita, ma tutto si concentra sulla reazione dei figli che, chiamati mentre si tenta di rianimare il padre, si rimpallano il telefono nell’indecisione di quali potrebbero essere le parole adatte a quel momento e a quell’uomo che hanno tanto odiato e al tempo stesso amato. La morte del padre costituisce la nascita dell’essere figli e anche dell’essere fratelli e, dopo un primo momento di apparente coesione e sincerità di sentimenti, la guerra per la successione prende nuovamente il sopravvento.

A fare da elemento di disturbo nel precario equilibrio tra i fratelli Roy ci pensa Luca Matsson, Ceo di un’importante azienda hi-tech norvegese che intende acquistare e trasformare la Waystar, annettendo anche l’emittente televisiva ATN. Qui si apre (primo momento) una sorta di scontro tra la vecchia Europa e la rampante America, come dichiaratamente esplicitato da Gerry quando sono tutti sull’aereo in volo verso la Norvegia e ripercorrono i curriculum dei loro avversari norvegesi: “Sì ok, sono giovani, sono in forma, ma sono pur sempre europei. Sono deboli, accoccolati tra lo stato sociale e la sanità pubblica. Possono anche credere di essere dei Vichinghi, ma siamo noi quelli che sono stati cresciuti dai lupi”.

In realtà ciò a cui assistiamo è proprio un ribaltamento di questo immaginario, e così l’America fondata sul broadcasting e sul dominio delle news h24, sta per essere inghiottita da un colosso digitale (ricordiamo che Spotify nasce in Svezia). I giovani contendenti al trono non sanno bene da che parte stare, su quale lato della Storia collocarsi e arrivano finanche, in una delle scene più grottesche dell’intera stagione, a presentare il progetto di una comunità residenziale esclusiva, fatta di servizi e infrastrutture extralusso a cui Kendall aggiunge il sogno di una vita postuma, come in un possibile episodio di Black Mirror. È a questo punto che si concretizza la frattura tra i fratelli, per cui Kendall e Roman decideranno di ostacolare a tutti i costi l’acquisizione da parte di Matsson, mentre Shiv si coalizzerà segretamente con i norvegesi.

Lo scontro però diventerà esplicito in occasione dei risultati delle elezioni presidenziali, secondo momento chiave di questa stagione. Anche in questa occasione Roman e Kendall si troveranno su posizioni opposte rispetto a quelle di Shiv: i primi hanno orientato l’intera linea editoriale di ATN in favore di Mencken, candidato populista di estrema destra che fomenta posizioni xenofobe, mentre la sorella è più vicina agli ambienti democratici. Quando un seggio elettorale a maggioranza democratica in Wisconsin viene incendiato, generando scontri nell’area, Kendall e Roman decidono ugualmente di assegnare lo stato al candidato repubblicano, che verrà poi dichiarato presidente. I giovani rampanti di casa Roy, che hanno scoperto il doppio gioco della sorella, sono mossi unicamente dal desiderio di far saltare l’accordo con Matsson e ciò potrebbe essere garantito proprio dal presidente repubblicano.

Ma mentre va in scena l’ennesimo vile scontro per il trono, l’America va a fuoco, i manifestanti a New York si radunano per protestare contro l’elezione di Mencken e ancora una volta il sistema mediale dimostra di svolgere un ruolo cruciale nel creare un sentimento e un’affettività collettivi e nel premediare una situazione in cui la presidenza di un esponente dell’estrema destra diventa non soltanto possibile, ma per certi versi inevitabile (Grusin 2017), mettendo fortemente in crisi i principi stessi su cui si fonda la democrazia americana. 

Ultimo decisivo momento della stagione, il funerale di Logan Roy. Roman, a cui era stato dato il compito di pronunciare il discorso funebre, dinanzi al feretro del padre, viene letteralmente travolto dall’emozione, come se fino a quel momento non avesse realizzato davvero quanto accaduto e si mostra nuovamente come lo avevamo conosciuto all’inizio, il più giovane e immaturo dei fratelli. Ancora una volta spetta a Kendall prendere in mano le redini della situazione dopo che lo zio aveva restituito un ritratto certamente non edificante del capofamiglia.

Ed ecco allora che il discorso di Kendall, tra luci e ombre, sorprende tutti trasformandosi in una sorta di inno al capitalismo americano, rappresentato proprio da quell’uomo ruvido e brutale che è stato suo padre. Un uomo che non aveva mai avuto paura di agire, di fare, di costruire cose, di accumulare soldi, “la linfa vitale, l’ossigeno di questa magnifica civiltà che abbiamo costruito dal fango…che infondono tutta questa nazione, questo mondo, riempiendo uomini e donne, ovunque, di desiderio, stimolando l’ambizione di possedere e produrre e commerciare e guadagnare e costruire e migliorare”. E l’umanità di quel padre disumano sta tutta lì, in questa ambizione sfrenata, che appartiene al passato, ad un’epoca che non esiste più e che si è trasformata nella disperazione dei figli. Saranno queste le sorti del sogno americano?

Riferimenti bibliografici
T. Elsaesser, “Storie di rumore e furore. Osservazioni sul melodramma familiare”, in Forme del melodramma, a cura di A. Pezzotta, Bulzoni, Roma 1992.
R. Grusin, “La mediazione malvagia”, il lavoro culturale, 2017.

Succession. Ideazione: Jesse Armstrong; interpreti: Brian Cox, Kieran Culkin, Alan Ruck, Sarah Snook, Jeremy Strong; produzione: Gary Sanchez Productions, Project Zeus; Distribuzione: HBO; origine: USA; anno: 2018 – in corso.

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